Nadia Terranova ripercorre gli anni al contrario di Aurora Silini e Giovanni Sanzatorre, alla deriva in un’Italia dilaniata dalla lotta armata e dall’eroina
Troviamo una picciridda seduta sulla tazza del water con il libro di geografia sulle ginocchia, unico grimaldello per aprire una breccia nel mondo, una zona franca. Nadia Terranova, già apprezzata autrice di libri per ragazzi, sceglie un luogo capitale per dar l’abbrivio alla narrazione. Luogo da sempre deputato alla riflessione e al filosofare, la salle de bain si presenta alla piccola Aurora Silini, la figlia del fascistissimo direttore del carcere di Messina, come un’oasi felice in cui «fingendo una lunga e penosa evacuazione» può guadagnarsi un altro nove prima della fine del trimestre. La sua strada si incontra con quella di Giovanni Sanzatorre che, terzogenito di un avvocato di sinistra, sceglie la strada della lotta armata perché stanco del comunismo stantìo del padre e dei cenacoli di vecchi signori che nei circoli rimandano la rivoluzione sine die.
È la cronaca di un amore in una dilatata e torbida primavera lunga molti anni, del frustrante e imperterrito tentativo di conciliare lo slancio movimentista di Giovanni e il bisogno di Aurora di circoscrivere il perimetro di una vita privata che assume sempre più i contorni di un rifugio. Pagliarani l’avrebbe definito un “Inventario privato”, dove l’aggettivo “privato” si incrosta dello stigma di un decennio.
Sono gli anni settanta, Peppino Impastato lancia Radio Aut, lo spettro della lotta armata aleggia sulla penisola e si parla di estendere gli attacchi alle fabbriche siciliane. «Quali fabbriche?», domanda Giovanni all’amico con compassionevole disincanto. Perché la “buttanissima” Sicilia non è Roma, non è l’agra Milano, né tanto meno l’utopica Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia in cui gli operai, dopo aver lavorato otto ore per permettere ai figli di studiare, la sera si facevano raccontare come funziona il mondo.
Quella tra Giovanni e Aurora è una relazione alla deriva, che rallenta ma non si arresta alla nascita della figlia Mara. Mara come la ragazza di Bube, dice lei. Mara come Mara Cagol, la moglie di Renato Curcio, dice lui. E lo sguardo della piccola Santatorre, più spaventoso di quello di un mafioso, ma meno di quello di un professore di matematica, s’appunterà sulle loro vite. Il sol dell’avvenire rosseggia nel cielo messinese, ma in limine all’orizzonte, lasciando incerti sul proprio moto, ascendente o discendente.
Quando Giovanni inizia a bucarsi, il precipizio si spalanca. Sull’eroina corrono molte voci, se ne inizia a parlare fischiettando sulle note dei Rolling Stones, si finisce a menzionarla a caratteri cubitali sulle testate nazionali. Le lettere cariche di tenerezza e di tremore che il padre manda alla figlia dalla comunità parlano delle mucche, dei conigli, delle galline e del vitellino Ettore di cui si occupa nella fattoria. Marta è orgogliosa di suo padre e lo magnifica nei “pensierini” scolastici.
Il romanzo della Terranova è una lunga indagine. Degli anni ripercorsi non si cerca solo il profumo del ricordo, ma un senso, una chiave interpretativa che rivolti i ricordi dalle fondamenta. Si azzarda l’ipotesi che forse, siano trascorsi al contrario. E se nascondono un messaggio, cifrato o solo timido, lo si può scoprire soltanto ascoltandoli dalla fine al principio come qualcuno suggeriva di fare con certe canzoni dei Beatles. Nella speranza di trovare un’occasione ladra, un infinito, un ponte per ricominciare.
Gli anni al contrario, Nadia Terranova, Einaudi Stile libero, 2015