La scrittura di Annie Ernaux è un costante tentativo di recupero della memoria personale e di quella collettiva e il suo ultimo libro, “Memoria di ragazza” non fa eccezione
In un’intervista rilasciata dopo l’uscita di Journal du dehors (1993), Annie Ernaux dichiarava di voler essere un luogo di passaggio: scoprire se stessa attraverso gli altri e parlare degli altri dicendo io, ripercorrendo le strade della propria memoria per scovare quei punti interstiziali dove il personale si fonde col comunitario. Journal du dehors voleva essere proprio questo: un diario non personale, non una raccolta di appunti ombelicali, ma qualcosa che si aprisse all’esterno, verso gli altri, un journal extime, come lo ha definito la stessa autrice aprendo la forma francese del diario personale (il journal intime) attraverso il prefisso ex-: una fuga da sé per scoprire se stessa e gli altri. Tutta la narrativa di Ernaux, almeno da Il posto (1983), è un tentativo di costruire un io transpersonale attraverso il racconto della propria vita che si fa, però, racconto di una comunità, di una nazione, di un gruppo di persone. Non perché l’esperienza biografica di Ernaux sia particolarmente emblematica, ma piuttosto in virtù della sua scrittura in grado aprirsi costantemente, con uno sguardo da etnografa di se stessa, all’altro da sé. Il caso più evidente è, naturalmente, Gli Anni, dove al racconto verosimilmente biografico dell’autrice (che però si mette sulla pagina in terza persona) ricostruito attraverso la descrizione delle fotografie, fa da contrappunto una narrazione impersonale al si o al noi che ingloba in se stessa settant’anni di storia francese (e per metonimia occidentale).
Ma anche le narrazioni condotte in prima persona e più scopertamente autobiografiche sono mosse da questo stesso desiderio: il primo titolo de Il posto era “Elementi per un’etnologia familiare”. La riflessione e il lessico della sociologia è sempre presente nella scrittura di Ernaux, che lo mette alla prova sul suo vivo corpo, corpo di transfuga di classe – nata in una famiglia non agiata e non istruita vive quasi con senso di colpa sia la mobilità sociale e che la sua origine: la vergogna sociale interiorizzata, la violenza simbolica delle gerarchie scolastiche, la dominazione maschilista sono fra i temi più ricorrenti in Annie Ernaux, tanto che Isabelle Charpentier ha detto di lei: «è un Bourdieu in romanzo». Il paragone non è poi così ardito: la scrittrice e il sociologo si sono effettivamente conosciuti e la prima ha sempre parlato con grande interesse e rispetto del lavoro del secondo.
Annie Ernaux non è certo la sola ad aver interiorizzato l’attitudine e le categorie descrittive delle scienze sociali all’interno del racconto autobiografico, anzi: Dominique Viart lo considera, a ragione, un tratto caratteristico della letteratura contemporanea. Già alla fine degli anni Ottanta Marc Augé parlava dell’emergere di quello che proponeva di chiamare etnoromanzo, nel quale viene recuperata un’etica della trasmissione come gesto costitutivo delle comunità umane. E se si guarda alla letteratura degli ultimi decenni oltre a constatare una diffusione esponenziale delle scritture dell’io (soprattutto biografiche e parabiografiche) non si può non sottolineare come la narrazione in prima persona (quando non è pura narcisistica e ombelicale esposizione del sé) venga spesso usata come garanzia per un discorso che tenta di recuperare uno sguardo sul presente (pochi nomi sparsi e diversi: Siti, Saviano, Carrère, Lerner).
È certamente questo il caso anche di Annie Ernaux che negli anni ha composto un grande mosaico coerente e compatto di cui ogni libro rappresenta un tassello che si completa alla perfezione con gli altri. Si tratta, per lei, di recuperare una traccia della memoria collettiva nella memoria individuale, di riportare sulla pagina la dimensione vissuta della storia, spesso quella storia fatta di microeventi dimenticati dalla storiografia ufficiale e di cui Ernaux indaga gli effetti sulla coscienza. Microeventi significativi e degni di trovare spazio nella letteratura perché segnali dei grandi eventi della storia e delle trasformazioni che la seconda metà del Novecento ha portato con sé.
Memoria di ragazza, ultimo libro di Annie Ernaux, non è da meno e per tanto, considerarlo solamente un racconto sulla perdita della verginità della sua autrice è banale e riduttivo e non riesce a dar conto della bellezza del libro che è anche una grande riflessione sul ruolo della memoria e della scrittura. Memoria di ragazza ripercorre l’estate del ’58 in cui Annie Ernaux, in una colonia estiva, ha avuto il suo primo contatto sessuale con un uomo, per poi procedere a raccontare gli anni successivi, il rapporto difficile col cibo, la bulimia, la scoperta del mondo fuori dalle mura domestiche. Tutta la narrazione assume la forma di una ricerca dell’io da giovane, di quella ragazza del ’58, così diversa dall’autrice che scrive, tanto che non riesce nemmeno a raccontare la sua storia in prima persona: la ragazza del ’58 non è mai io, ma resta un terzo che viene ricreato attraverso la scrittura. Ernaux, infatti, non si limita a ricordare, ma riflette sul ruolo stesso della memoria e della letteratura: «Quale convinzione la sostiene se non che la memoria sia una forma di conoscenza? E quale desiderio c’è, oltre a quello di capire, in questo accanirsi a cercare, tra le migliaia di nomi, verbi e aggettivi, quelli che dicano la certezza – e l’illusione – di aver raggiunto il più alto grado possibile di realtà?» (p. 134). La memoria ricreando quel mondo e quelle esperienze non si limita a riportarle al presente della scrittura, ma deve necessariamente immaginarle, ricomporle, ripensarle, ordinarle in una struttura narrativa in grado di dare senso a cose che solamente la distanza temporale permette di comprendere davvero: è la mancanza di senso di ciò che si vive nel momento in cui lo si vive che moltiplica le possibilità di scrittura. È la stessa riflessione che sta alla base, esplicitamente, de L’usage de la photo (2005, uno dei libri più belli della Ernaux). Scritto insieme a Marc Marie, L’usage è composto da quattordici foto e altrettante descrizioni (doppie: entrambi gli autori-amanti parlano della stessa foto), ma Ernaux ammette subito che non è la sua memoria a decifrare le foto, ma la sua immaginazione: l’ecfrasi diventa infatti subito espediente e pretesto per parlare d’altro: del cancro al seno, del rapporto fra la violenza e l’amore, fra la violenza e il sesso, fra l’erotismo e la morte (fuori da ogni nostalgia romantica: qui c’è la morte vera, concreta, fatta di chemioterapie, parrucche e perdita di capelli, operazioni al seno e ricoveri in ospedale). È la stessa scrittura, fortemente ancorata alla memoria individuale, a essere un mezzo di conoscenza per Ernaux, una continua colluttazione con il reale: «A che scopo scrivere, d’altronde, se non per disseppellire cose, magari anche una soltanto, irriducibile a ogni sorta di spiegazione – psicologica, sociologica o quant’altro -, una cosa che sia il risultato del racconto stesso e non di un’idea precostituita o di una dimostrazione, una cosa che provenga dal dispiegamento delle increspature della narrazione, che possa aiutare a comprendere – a sopportare – ciò che accade e ciò che facciamo» (Memoria di ragazza, p. 147).
Comprendere e sopportare, ecco a cosa serve la letteratura per Annie Ernaux e Memoria di ragazza ne è un esempio efficace: la storia del primo rapporto carnale di Annie Duchesne (questo il nome da nubile dell’autrice) è inscindibile da una rappresentazione indiretta dei rapporti sociali della Francia della fine degli anni ’50, primi ’60, del senso di vergogna della protagonista per la sua difficoltà di integrarsi a causa della sua appartenenza a una certa classe sociale, accompagnato da un certo spirito ribellistico animato dal desiderio di allontanarsi da quella classe, con il conseguente senso di colpa verso i genitori, la cui appartenenza agli strati bassi della società è costantemente ribadita dalla loro povertà linguistica. Vi si accompagna anche la rappresentazione e la decostruzione di certi comportamenti e modi di pensare stereotipati: non c’è nessuna empatia per Annie Duchesne da parte di Annie Ernaux, ma uno sforzo di comprensione del suo comportamento sì. Annie Duchesne voleva essere a tutti i costi l’oggetto del desiderio di qualcuno, senza preoccuparsi dello scherno e della derisione degli altri, senza rendersi conto completamente della sua totale sottomissione e della dinamica di possesso soggiacente. Arriverà più tardi la consapevolezza, con le letture di Simone De Beauvoir e la rivendicazione del proprio corpo. E con la consapevolezza arriverà anche la vergogna, ma una vergogna diversa rispetto a quella di essere figlia di droghieri, una vergogna storica, quella dell’orgoglio di essere stata oggetto del desiderio, di aver considerato la vita alla colonia come una conquista della libertà, quando era solamente una tacita sottomissione: «mi passo e ripasso la scena nella testa, l’orrore non si è attenuato, quello di essere stata così miserabile, una cagna che va a mendicare una carezza e riceve un calcio» (p. 72).
Memoria di ragazza è però anche il racconto della costruzione di un’identità che procede, paradossalmente, attraverso la decostruzione della stessa. Ma liberiamoci da un equivoco: Annie Ernaux non è una scrittrice di autofiction, non è Chloé Delaume che scrive «Mi chiamo Chloé Delaume. Sono un personaggio di finzione» (e nemmeno Walter Siti, come tutti), Memoria di ragazza lo dice chiaramente: «Non costruisco un personaggio di finzione. Decostruisco la ragazza che sono stata». Il racconto si vuole del tutto credibile e sincero, per non minare lo sguardo etnografico sull’io e sul mondo. Memoria di ragazza è infine anche un libro che torna di nuovo su un altro dei temi prediletti dalla Ernaux: il desiderio (dopo il già citato L’usage de la photo e Passione semplice, non uno dei suoi migliori, in verità), soprattutto su come il desiderio è in grado di svuotare l’io: «Ci sono esseri che sono sommersi dalla realtà degli altri, dal loro modo di parlare, accavallare le gambe, accendere una sigaretta. Invischiati nella presenza degli altri. Un giorno, o piuttosto una notte, sono trascinati nel desiderio o nella volontà di un unico Altro. Ciò che credevano di essere scompare. Si dissolvono, e guardano il proprio riflesso agire, obbedire, trascinati nel corso sconosciuto delle cose. Sono sempre in ritardo sull’Altro, sulla sua volontà che non raggiungono mai».