La vergogna è un «marchio a pelle»; è la sensazione di indegnità e impotenza di coloro che sentono di non contare nulla. Si tratta quindi della «verità ultima» – ma anche dell’origine prima «che unisce la ragazza del ’52 alla donna che sta scrivendo». Quella che si chiama Annie Ernaux.
Ho sempre avuto voglia di scrivere libri di cui poi mi fosse impossibile parlare, libri che rendessero insostenibile lo sguardo degli altri. Ma quale vergogna potrebbe arrecarmi la scrittura di un libro, che sia all’altezza di quella che ho provato a dodici anni?
Ne La vergogna (L’orma editore, traduzione di Lorenzo Flabbi), Annie Ernaux torna sul luogo del “delitto” di altri suoi scritti come Il posto e L’altra figlia, quella terra dell’infanzia da cui è partita per consumare il suo «tradimento di classe» verso la famiglia d’origine, ma in cui si è radicata anche l’intenzione di «vendicare la sua razza» attraverso la scrittura.
Siamo sempre a Yvetot, il paese dove i genitori gestiscono un bar-drogheria e la giovane Annie va a scuola privata dalle suore, «sulla riva destra della Senna, tra Le Havre e Rouen. Appena oltre inizia l’incerto, il resto della Francia e del mondo». Il toponimo stavolta è però rappresentato solo dall’iniziale, poiché «Y.»:
È la terra natale senza nome in cui, appena vi faccio ritorno, sono subito assalita da un torpore che mi sottrae ogni pensiero, pressoché ogni ricordo puntuale, come se fosse in procinto di inghiottirmi di nuovo
Una difficoltà di nominare che introduce, oltre una dimensione metadiscorsva sempre accentuata nella prosa di Ernaux, anche uno dei fili conduttori del testo, il rapporto tra indicibilità, memoria e scrittura. Se infatti scrivere rappresenta sempre per Ernaux un modo di fare i conti con il passato e dare voce a ciò che è stato costretto al silenzio, ne La vergogna questa intenzione è più che altrove teoricamente esplicitata e programmaticamente perseguita.
Indicibilità, memoria, scrittura per immagini
La vergogna si apre con il racconto di un accadimento inatteso e irreversibile: «Mio padre ha voluto uccidere mia madre una domenica di giugno, nel primo pomeriggio».
In senso proprio e figurato si potrebbe parlare del libro più “annalistico” di Ernaux, dove l’attenzione della scrittrice si focalizza intorno all’anno in cui viene precisamente ricollocato l’evento spartiacque posto in incipit, avvenuto il 15 giugno del 1952.
Nella prima parte del libro Ernaux affronta quindi il vuoto di senso e la soluzione di continuità temporale generati dalla violenza dell’episodio cui ha assistito non ancora dodicenne.
Nonostante il fatto che l’intenzione omicida non si sia poi realizzata, da quel momento in poi un «filtro» si interpone tra l’io e le cose, instaurando uno stato di allerta senza oggetto («Un’ipercoscienza che non si concentrava su nulla»), di minacciosa imminenza, che segna l’ingresso nella vita adulta. Di quanto accaduto, la scrittrice e i genitori non parleranno più. La stereotipia dell’immaginazione data dal trauma finisce quindi per contagiare anche il linguaggio. Fino al momento di scrivere, l’espressione verbale dell’evento resta confinata a frasi congelate e senza sbocco.
Ernaux conserva di quel periodo, solo la silenziosa fissità di alcune «scene»; si tratta di un termine ricorrente, che può valere come un tecnicismo per una scrittura di forte impronta visiva: anche qui infatti la scrittrice cerca negli album di famiglia e trova due fotografie, scattate a qualche mese di distanza e che incorniciano temporalmente quella domenica di giugno. Ma nell’interrogare le immagini del passato emerge soprattutto la riflessione sulla loro perturbante familiarità («Sconcerto nel pensare che tuttavia si tratta dello stesso corpo di oggi») e sul loro potere di mentire («Se ho conservato proprio questa dev’essere perché a differenza delle altre ci fa apparire come ciò che non eravamo, persone chic, turisti in villeggiatura»).
Da questo punto in poi la scrittura si fa più spezzata, mentre la ricognizione procede per accumulo, anticipando lo stile de Gli anni, in una sorta di inventario di oggetti, canzoni, cartoline anch’essi tutti datati 1952. Ma come la memoria dell’evento e le fotografie di quel periodo, anche questi supporti materiali sembrano essere insufficienti per mettere meglio a fuoco la scena, il suo contenuto latente.
Averla messa giù a parole non ha cambiato per niente la sua assenza di significato. Resta ciò che è stata a partire dal ’52, un fatto di follia e di morte, al quale ho sempre paragonato la maggior parte degli eventi della mia vita per valutarne l’intensità del dolore, senza mai trovarne un equivalente.
Auto-etnologia di un sentimento di classe
L’impermanenza attribuita al soggetto, quanto alla sua memoria individuale (Ernaux conclude che «Non esiste un’autentica memoria di sé»), non basta però a contraddire la necessità dello scavo.
Quella scena, rappresa da tanti anni, voglio riuscire a smuoverla, a privarla della sacralità iconica che ha assunto dentro di me (attestata, ad esempio, dalla convinzione che sia stata lei a spingermi a scrivere, che ci sia lei alla base di tutti i miei libri)
Ernaux si rivolge quindi a una dimensione pubblica della memoria e consulta presso l’archivio comunale di Rouen, l’intera annata 1952 del quotidiano Paris-Normandie. In un movimento opposto e speculare a quello compiuto dal fotografo americano Lewis Baltz nel suo libro Deaths in Newport, le sensazioni prevalenti davanti alle cronache di quell’anno sono però di spaesamento e spersonalizzazione: «Non riconoscevo nulla»; «Sulle differenze tra le varie epoche i giornali possono soltanto fornirci informazioni di carattere collettivo».
Ma «smuovere» il trauma significa comunque, innanzitutto, ridiscuterne il carattere “privato”:
Associare per sempre la parola privato alla mancanza e alla paura, alla chiusura. Persino nell’espressione vita privata. Scrivere è una cosa pubblica.
Capiamo quindi che l’evento traumatico posto in apertura non coincide esattamente con quella vergogna che Ernaux scrivendo confessa qui per la prima volta di provare. Semmai, sempre in termini fotografici, il trauma funziona come rivelatore. Quel che interessa alla scrittrice ha infatti una validità generale.
Negli stessi anni in cui scrive La vergogna, Ernaux è impegnata anche nella stesura di Journal du dehors (Gallimard 1993, tradotto per Rizzoli da Rossana Petri con il titolo, un poco fuorviante, Diario della periferia) e La vie extèrieure (che reca come sottotitolo 1993-1999, pubblicato da Gallimard nel 2000 e inedito in Italia). La vergogna partecipa quindi di un decennio di scrittura in cui viene posta in essere quella volontà di estroflessione o estrinsecazione della propria vicenda attraverso “le vite degli altri” (fino anche alla cancellazione) che poi vedrà ne Gli anni il suo esito più maturo.
Ernaux decide allora di essere «l’etnologa di sé stessa»:
Per raggiungere la mia realtà di quell’epoca posso affidarmi soltanto alla ricerca delle norme e dei riti, delle credenze e dei valori che definivano gli ambienti sociali, la scuola, la famiglia, la provincia, nei quali ero immersa e che, pur non percependone le contraddizioni, governavano la mia esistenza.
Le pagine che seguono sono quindi tese alla ricostruzione dell’ambiente di origine nei suoi diversi strati e dimensioni “etno-sociologici”. Anche le «immagini» devono farsi «documenti», oggettivandosi. Ciò determina la necessità di una precisa descrizione spaziale, una topografia non sentimentale ma «dalle linee dure» delle strade e dei luoghi dell’infanzia, volta a «rendere leggibile la gerarchia sociale che racchiudevano». La mappatura trascorre dallo spazio alla lingua, man mano che si avanza verso la zona industriale e la campagna di «Y. », dove «Parlar bene implica uno sforzo, cercare un’altra parola al posto di quella venuta subito in mente, non urlare, usare un tono più prudente, come se si stesse maneggiando un oggetto delicato». Si ripercorrono gli imperativi elementari (non sprecare il cibo, non consumare troppa acqua, indossare vestiti poco sporchevoli) e quindi i gesti che costituiscono la grammatica consueta del quotidiano (quelli necessari a «uccidere le bestie» in modo preciso e sicuro o a «mostrare invariabilmente disprezzo»). Al termine di questa rassegna accurata e impietosa di tutto ciò che costituiva l’orizzonte della sua vita di allora, Ernaux è pronta a scrivere della specifica qualità di quella vergogna che dal 1952 non ha «mai smesso di provare». La violenza di quel giorno ha distrutto il senso di rispettabilità che teneva insieme i codici e le aspirazioni del suo mondo di origine. La vergogna, sentimento che siamo abituati a considerare come intimo e segreto («L’aspetto peggiore della vergogna è che si crede di essere gli unici a provarla»), ha invece radice sociale e deriva precisamente dall’intuizione della propria inferiorità di classe.
Era normale provare vergogna, come se si trattasse di una conseguenza insita nel mestiere dei miei genitori, nelle loro difficoltà economiche, nel loro passato da operai, nel nostro modo di essere.
La vergogna è un «marchio a pelle» impresso una volta per tutte dal momento che si riconosce «qual era il nostro posto nella società»; è la sensazione di indegnità e impotenza di coloro che sentono di non contare nulla. Si tratta quindi della «verità ultima», dell’unico tratto «che unisce la ragazza del ’52 alla donna che sta scrivendo».
Non c’è più, come ne Il posto, un altrove, inaugurato dal passare il concorso del Capes, o come ne Gli Anni, altre immagini da strappare alla corsa sempre più illeggibile del tempo. Mentre l’io è «un luogo di passaggio delle cose» (come dichiarato in Écrire, écrire pourquoi? Entretien avec Raphaëlle Rérolle), ma si avverte come la nostalgia di un’idea di salvezza, che il testo però non vuole o non riesce a indicare, se non rivolgendola, come nelle parole che chiudono il libro, al di fuori del proprio spazio.