L’occasione di presentare i primi appuntamenti della prossima stagione al Teatro Franco Parenti, diventa il momento per raccontare un progetto e un’idea di teatro che continua, anche oltre le persone
Le stagioni teatrali (salvo propaggini ormai non più così rare) si sono ormai concluse, e si affastellano gli appuntamenti a raccontare quello che sarà, a far immaginare il luccichio dei pezzi migliori custoditi in attesa dell’inizio del nuovo anno. Non è rara quindi l’immagine della corsa – in qualche caso contro il tempo – a ingolosire, a immaginare cosa ci aspetta. Ma c’è anche chi sceglie una strada diversa.
Il Teatro Franco Parenti, ad esempio. In via Pier Lombardo si sceglie un altro ritmo. Non soltanto perché quelle presentate – pur in una messe di stagioni mai veramente concluse – sono, qui, dichiaratamente le prime, parzialissime, anticipazioni: mancano, per ora, nomi tradizionalmente cardine che, va da sé, verranno. Il dato più importante, però, è un cambiamento di prospettiva.
Nella diffusa corsa a raccontare il cosa, la direttrice Andrée Ruth Shammah sceglie qualcosa di rivoluzionario, nella sua centralità: spiegare perché. Una mattina di fine giugno diventa quindi il momento perfetto per domandarsi chi si è. Per guardare alla strada percorsa da un teatro che – rivendica la direttrice artistica «è cresciuto per necessità, non per ingordigia». E scegliere quale strada percorrere. Dentro a quel passo meno affannoso, allora, si scopre il tempo per decidere dove andare. Così, diviene naturale prima che ci sia bisogno di esplicitarlo che da oggi in poi si vada avanti solo per strade capaci di restituire il senso di un certo tipo di teatro.
Quello che Shammah riconosce come proprio al punto da permeare quasi ogni mattone del teatro, ogni asse del palcoscenico. Perché è da lì che bisogna ripartire, dalla materialità di chi ha non (solo?) l’estro dell’artista, ma la dedizione dell’«artigiano della scena», che ha saputo permeare la fisicità del luogo, al punto da esorbitare le persone che gli hanno dato forma.
E può superarle. Così, Andrée Ruth Shammah può annunciare quasi con naturalezza che quella di “Chi come me”, che a gennaio aprirà dentro al teatro un nuovo spazio, portando in scena cinque adolescenti, sarà ufficialmente la sua ultima regia. Si rimane spiazzati e forse si fa fatica, nell’anno che conclude le celebrazioni del cinquantesimo, immaginare un Teatro Parenti con la sua anima dedicata solo al teatro nella sua dimensione funzionale più che artistica. Ma forse a ben guardare è proprio questo spettacolo, la lente da cui guardare una stagione la cui costruzione non potrebbe essere più programmatica.
Si tratta dell’opera di un autore israeliano, Roy Chen, a segnare l’appartenenza a una radice personale che per Shammah ha il sapore di una postura esistenziale, oltre che della necessità di identificare una appartenenza che la rappresenti. Non è il solo: c’è anche Etgar Keret, autore di Pizzeria Kamikaze dal 17 ottobre al 5 novembre) riadattato da Francesco Brandi. La storia di una morte, possibile, da cui nasce una vita nuova: dalla scelta di aprire uno spazio, infatti, si disegna una strada nuova: torna anche Francesco Sferrazza Papa – con Valentina Picello -, dal 18 ottobre al 5 novembre, con un Tennessee Williams curioso, Parlami come la pioggia, con la regia di un giovanissimo che ha già ben impressionato, Andrea Piazza.
Ma torna, soprattutto, Raphael Tobia Vogel, il cui talento può finalmente liberarsi – qualora qualcuno ne trovasse ancora – dai cascami di pregiudizi di ordine biografico. Dal 12 al 24 marzo saranno sue le Scene da un matrimonio di Bergman. A sostenerlo in scena, l’uomo a cui tocca il più inaspettato e imprevisto passaggio di consegne. Liberata forse dal sogno (illusione? Eccesso di ottimismo, speranza?) di poter consegnare a un uomo solo le chiavi del camerino e del Parenti che sarà, Shammah sceglie la squadra. Cinquant’anni di storia sono troppo peso per un uomo solo? E allora meglio fare un passo di lato, fidarsi di chi già cammina accanto, e costruire un progetto: qualche anno, poi si misurerà. Per ora, la scelta è caduta su un nome sicuro: Fausto Cabra: a lui, oltre a Williams, è affidato un testo scritto appositamente da Gianni Forte, Schegge di memoria disordinata a inchiostro policrom” in scena a maggio, oltre che l’onere di essere la guida dei giovanissimi protagonisti di Chen. Del resto, è questo il compito di chi si è ormai fatto Maestro: consegnare agli allievi lo strumento e lo spazio.
Lo avrebbe detto – e lo aveva prefigurato a una Shammah non ancora trentenne – il Testori dei “Promessi sposi alla prova”, che tornano in scena con la Monaca di Monza per antonomasia, ormai, Federica Fracassi, e nel ruolo del Maestro che fu di Parenti il Renzo della prima volta, Giovanni Crippa. Il segno di un filo che continua e non si spezza, come quello tra il novatese e il “suo” Teatro, che nel centenario gli dedica una lettura, Il dio di Roserio il 2 luglio, ai Bagni Misteriosi, con Lino Guanciale, e un ciclo di lectio magistralis, tra il 15 e il 17 settembre, in cui Shammah guida attraverso la trilogia degli Scarrozzanti su cui il teatro, cinququant’anni fa, ha aperto il suo sipario, per chiudere a maggio con La Maria Brasca “inossata” da Marina Rocco. Del resto, non si può andare lontano senza sapere da dove si arriva. E se si parla di teatro, l’origine è spesso risalente. Come la Grecia da cui arriva l’Iliade, portata in scena a luglio da Corrado d’Elia, o i lirici cui dà voce, il 18 dello stesso mese, Laura Marinoni. O l’Orestea tradotta da Maurizio Schmidt, che a marzo abiterà lo spazio della nuova sala.
Del resto, occorre essere «una grande ammiratrice del futuro» per sapersi guardare alle spalle, per prendere dalla grande età la leggerezza di una “Over dance”. Per poter guardare avanti, infatti, c’è bisogno di tornare ai maestri, di farli propri anche per superarli, rielaborarli e farne corpo personale. Ricostruire un’origine da cui prendere il largo, come il paese Pavesiano, solo quando lo si è fatto proprio. Anche per scontrarsi, se occorre, o per scoprire che l’attualità, senza appiattirla, si racconta meglio col costume di un Molière, nel quattrocentenario.
Perché – sostiene Shammah – non serve necessariamente attualizzare per trovare la modernità. In una mattinata che si rivela una lezione di consapevolezza di un percorso, di chiarezza e rigore limpidi, il Teatro Franco Parenti per bocca della sua fondatrice rivendica di avere ben chiaro non solo la direzione che ha scelto, ma soprattutto – ed è raro in un tempo di ricerca spasmodica al compiacimento – di saperne perfettamente il motivo.
È in nome di questo che tornano in scena alcuni dei cavalli di battaglia degli ultimi anni. Oltre al Misantropo con Micheletti a novembre, la Leggenda del Santo bevitore di Cecchi dalla metà del mese (e ancora, le ascendenze e le origini tornano). E poi Pirandello, Così è se vi pare, a dicembre, Come tu mi vuoi a marzo e Da stasera si recita a soggetto, un viaggio nel suo metodo rimasticato dalla follia di Paolo Rossi tra Natale e l’Epifania. Vi si trovano perfettamente a loro agio esperimenti di sicuro interesse e affidati a grandi artigiani della scena come Agosto a Osage County di Filippo Dini a gennaio o il Dostoevskij insolito di L’eterno marito adattato da Carnevali e portato in scena a febbraio da due grandi talenti come Ciro Masella e Francesco Villano, o ancora, nel mezzo, o il Boston Marriage di Maria Paiato.
O anche il nuovo Carlotto, e il ritorno di Maccarinelli con Il figlio, che si tenta una tenitura lunga dell’amatissimo La vita davanti a sé con Silvio Orlando, a ottobre, che ai primi di novembre arriverà a contare nove settimane complessive, come oggi non si fa più. Se pure si finisce all’attualità più stringente, con La Madre di Eva di Stefania Rocca a maggio, da questa coscienza che affonda le radici in un lungo cammino che il Teatro Parenti chiama il suo pubblico, disposto a riconoscervisi o a farsi scoprire a proprio agio. Occorre chi sappia guardare lontano tenendo salde le radici, per conoscere in quale direzione va il futuro, per mettersi “in viaggio incontro ad altri viaggiatori” in cerca di un passo diverso. Ma occorre chi si sappia prendere una responsabilità per loro. Portare un peso, avere una risposta. Che nella sempre più diffusa fame di senso, di certo non incontra il silenzio.