L’esposizione di Palazzo Reale celebra il grande artista siciliano: una ricca campionatura delle rare opere di Antonello, già protagonista di un’importante mostra monografica al MART di Rovereto nel 2013, arriva così a Milano, dove l’artista rischiò di insediarsi, nel 1476, come pittore di corte di Galeazzo Maria Sforza.
C’è qualcosa che ci colpisce subito appena guardiamo uno dei ritratti di Antonello da Messina ed è che quel personaggio dipinto nel lontano quattrocento ci sembra di averlo già visto, anzi di più, di averci parlato, di averlo conosciuto abbastanza per sapere qualcosa della sua vita, dei suoi sentimenti, soprattutto delle sue sofferenze.
Prendiamo il Ritratto d’uomo, noto anche come Ritratto di marinaio, o ancora come Lo sfregiato
Così lo descrive Vincenzo Consolo nel libro che gli ha dedicato, Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino 1976).
Era uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce il futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora ad accentuare quel sorriso.
Anche Leonardo Sciascia (nel volume dei Classici dell’Arte del 1967) guardandolo si chiede:
Il gioco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza…a chi somiglia l’ignoto del Museo Madrilisca? Al mafioso di campagna e a quello dei quartieri alti, al deputato che siede sui banchi della destra e a quello che siede sui banchi della sinistra; al contadino e al principe del foro; somiglia a chi scrive questa nota ( ci è stato detto); e certamente somiglia ad Antonello. E provatevi a stabilire la condizione sociale e la particolare umanità del personaggio. Impossibile. E’ un nobile o un plebeo? Un notaro o un contadino? Un pittore un poeta un sicario? Somiglia, ecco tutto.
L’uomo è vestito di un nero reso con riflessi cangianti grigio-bruni, con giochi di lucido-opaco, le asole, i revers della giacca, i bottoni, il bianco abbagliante della camicia rendono la profondità di campo, porta un cappello a zucchetto da cui escono ciuffi di capelli ribelli. Sobrio ed elegante. Ma è il suo sorriso che spiazza, sardonico, beffardo.
Sotto gli occhi, intorno alla bocca, nonostante i restauri, vediamo ancora le tracce di sfregi fatti da qualcuno che lo odiava, una sorta di fattura forse.
Capiamo come questo personaggio abbia potuto scatenare le fantasie più torbide, benché della sua identità non sappiamo nulla. Solo ipotesi contraddittorie.
La mostra di Palazzo Reale di Milano ci restituisce un corpus cospicuo delle opere di Antonello, diciannove su trentacinque che ne conta la sua autografia, in gran parte recuperate dalla distruzione dei terremoti, dall’incuria, dalle vicissitudini ereditarie, dal grande storico dell’arte Giovan Battista Cavalcaselle (Legnago 1819 – Roma 1897), patriota mazziniano poi esule a Londra, che ha percorso la Sicilia negli anni Sessanta dell’Ottocento, riuscendo a restituire un’identità certa, storica ad Antonello e alle sue opere, al di là di miti e leggende, attraverso indagini, visite nei posti più remoti e annotando migliaia di pagine di appunti, descrizioni e disegni, riproposti come guida all’interno della mostra.
Il Cristo ha l’espressione di un uomo distrutto, che non si capacita di quello che gli sta capitando. I capelli sono appiccicati dal sudore sulla fronte, lo sguardo implorante. La corona di spine, il cappio intorno al collo danno un rilievo concreto, materico al dramma. Non c’è nulla di divino, di trascendente. E’ un uomo che soffre e non sembra sapere il perché.
Il quadro, come molti altri di Antonello, prima dell’attribuzione di Cavalcaselle, era considerato fiammingo, probabilmente di Jan Van Eyck o Hans Memling.
Osservando la strabiliante qualità pittorica della tavola capiamo quanto avesse avuto successo il racconto fantasioso di Vasari nelle sue Vite (pubblicate in due edizioni nel 1550 e nel 1568) sul giovanissimo, talentuoso Antonello che avrebbe ricevuto il segreto della pittura a olio direttamente da Giovanni da Bruggia, cioè Jan van Eyck, che sarebbe rimasto colpito dalla grazie e dall’abilità del giovane siciliano.
Appresa la tecnica, Antonello l’avrebbe portata dalle Fiandre in Italia, facendo risplendere di ocre, lapislazzuli, verdi smeraldini, bianchi perlacei, le tavole della sua avviata bottega di Messina.
Carlo Ridolfi, nel 1648, nelle Meraviglie dell’Arte aggiungerà una coloritura veneta al mito, raccontando che Giovanni Bellini ingannò Antonello travestendosi da senatore per farsi dipingere il ritratto e così riuscì a scoprire che il maestro siciliano immergeva il pennello in olio di lino prima di stendere il colore in successive, tenuissime velature.
Sarà appunto Cavalacaselle a restituirci la verità: non c’era bisogno di ipotizzare fantastici viaggi, Messina era centro di tutte le rotte commerciali da oriente a occidente, convogli navali partivano da Venezia verso l’oriente e l’Africa e sulla rotta Atlantica le merci arrivavano da Bruges e da Londra. Inoltre il mecenatismo del regno degli Angioini prima, degli Aragonesi poi aveva attirato artisti borgognoni e fiamminghi su cui si era formato, a Napoli, Colantonio, maestro di Antonello.
Quest’ultimo quindi può aver visto e studiato direttamente la tecnica dei pittori fiamminghi e la imita elaborando una particolare stesura a olio e miscele con tempera all’uovo, così da ridurre i tempi di essicazione degli strati e permettere impalpabili velature, che danno un effetto di assoluta naturalezza.
Forse il segreto che ci cattura dei dipinti di Antonello sta proprio in una attrazione per sua semplicità, senza nessuna forzatura né di sentimenti, né di virtuosismi coloristici: ci pare di capire, di conoscere i suoi personaggi, di vederceli davanti coi loro drammi e anche con le loro vesti.
Perfino la celeberrima Annunciata, considerata l’icona perfetta, presente sulla copertina del Catalogo Skira e sulle locandine della mostra, è di una sobrietà e immediatezza sconcertanti. Qui Antonello rivoluziona l’iconografia classica dell’Annunciazione: non c’è l’Angelo, la casa, il portico, il paesaggio, ma solo Maria col capo coperto da uno straordinario manto blu lapislazzuli, di cui si notiamo le pieghe del ferro da stiro, quasi fosse stato appena tolto da una cassapanca. Maria appare un po’ preoccupata, lo sguardo sfuggente, con una mano trattiene il manto, l’altra è protesa in avanti oltre il leggio di legno, quasi a schernirsi, quasi a ritrarsi di fronte all’annuncio dell’angelo. E’ una semplice, dignitosa donna, intimorita da un destino troppo grande per lei.
Antonello da Messina, a cura di Giovanni Carlo Federico Villa, Milano, Palazzo Reale, fino al 2 giugno.
Immagine di copertina: Ritratto d’uomo, Cefalù, Museo Mandralisca