Al Bagatti Valsecchi ci sono una manciata di capolavori e un allestimento elegantissimo. Ma non basta una raccolta di figurine per fare una mostra
Leggendo il pannello introduttivo di Rinascimento. Il trittico di Antonello da Messina ricomposto, a cura di Antonio Natali e Tommaso Mozzati al Museo Bagatti Valsecchi, potrebbe capitarvi di avere un déjà-vu e di trovarvi a pensare a Il Tesoro d’Italia, napoleonica ammucchiata curata da Sgarbi nel padiglione di Eataly a Expo. Sarà colpa del tono trionfalistico con il quale i curatori si vantano di essere riusciti a racchiudere il Rinascimento in una stanza, o forse dell’ormai insostenibile retorica dell’“eccellenza italiana”, oppure semplicemente del fatto che anche questa iniziativa espositiva è figlia del matrimonio fra l’Esposizione Universale e il Vittorio nazionale.
La mostra nasce infatti per celebrare il conseguimento di un accordo siglato fra la Regione Lombardia e la Galleria degli Uffizi, concepito da Natali – che del museo fiorentino è direttore uscente – ma reso possibile solo grazie all’intercessione di Sgarbi in qualità di Ambasciatore delle Belle Arti per Expo 2015. Il patto è il seguente: la Regione cede agli Uffizi il San Benedetto di Antonello da Messina (1430 circa-1479) di sua proprietà ma conservato al Castello Sforzesco; il Castello, in cambio, riceve una Madonna col Bambino di Vincenzo Foppa (1430 circa-1515/1516). In questo modo il trittico del sottotitolo potrà essere riunito per i prossimi quindici anni, termine dell’accordo. Occorre però una precisazione: diversamente da quanto divulgato sui giornali – credo senza responsabilità dei curatori, che in catalogo lo raccontano correttamente – il trittico non è scomposto da quattrocento anni ma solamente dal 1995, cioè da quando la Regione acquistò il San Benedetto a un’asta Finarte. Da allora, inoltre, il trittico è già stato ricomposto tre volte: nel 2002 agli Uffizi, in occasione della presentazione al pubblico del restauro delle altre due tavole (acquistate dallo Stato per il museo fiorentino nel 1996), nel 2006 alle Scuderie del Quirinale per la monografica curata da Mauro Lucco e infine nel 2014 – l’anno scorso! – al MART di Rovereto per l’esposizione curata da Ferdinando Bologna e Federico De Melis.
Le opere esposte in questa piccola mostra sono tutte di indiscutibile qualità: oltre alle tre tavole di Antonello e all’anconetta di Foppa, ci sono la cimasa della Pala dei Decemviri del Perugino, prestata dalla Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, e due elementi del Polittico della Misericordia di Piero della Francesca, provenienti dal Museo Civico di Sansepolcro. Anche l’allestimento curato dallo studio di Piero Lissoni, pulito e di una semplicità apodittica, non poteva riuscire meglio: le opere, affrontate l’una all’altra sulle quattro pareti di una stanza, si possono osservare e studiare con agio, ed è cosa rara.
Ma basta tutto questo per costruire una mostra sensata? Provate a stazionare in sala per una mezz’ora, avendo cura di origliare i discorsi dei visitatori, e capirete che no, forse non basta. Gli studenti si accontentano di rimbalzare da una sponda all’altra esercitandosi nelle attribuzioni – celo, celo, manca! – mentre chi ha più anni e pazienza per fermarsi a osservare snocciola al massimo una serie di – giustissimi – luoghi comuni: il prospettivismo di Piero, il realismo di Foppa, l’idealismo di Perugino… Antonello… beh, Antonello è siciliano, ed è bravissimo nei ritratti di tre quarti.
Chi entra in questa stanza cosa impara di nuovo «dell’eccellenza di una fra le stagioni più luminose della pittura italiana»? Una selezione così stringata è certamente emblematica, ma rischia di risultare ermetica ai più, di ridursi cioè a un bigino piuttosto che alla Breve ma veridica storia della pittura italiana di Roberto Longhi, evocata da Mozzati in catalogo. Se proprio non si voleva problematizzare il rapporto fra le opere e gli artisti esposti – tornando a interrogare, magari, i contatti fra Antonello e Piero – almeno si poteva provare ad accompagnare il visitatore, spiegandogli perché quei pittori e quelle immagini possono essere considerati esemplari di un tratto fondamentale della nostra storia pittorica.
Alla fin fine, come annuncia il sottotitolo, la ragione più convincente della mostra sembra stare nella celebrazione della temporanea ricomposizione del trittico di Antonello. Ma anche su questo punto si potrebbero avanzare dei dubbi: è giusto che gli Uffizi vengano privati di un’opera, la Madonna col Bambino di Foppa, acquistata nel 1976 per colmare una significativa lacuna della più importante galleria nazionale? Vale la pena di mettersi a ricomporre i trittici, scambiando le opere come fossero figurine e quasi calpestando la storia collezionistica dei singoli oggetti?
Che un’operazione simile trovi ospitalità fra le mura del Bagatti Valsecchi – che da solo costituisce uno straordinario manuale di storia del collezionismo, oltre che di tante altre storie – suona strano. Ma basta ricordarsi che Vittorio Sgarbi è consigliere anche qua. Lo staff del Bagatti, da sempre appassionato e competente, si sarà trovato la mostra fra capo e collo e non avrà potuto rifiutare. Di sicuro è stato bravo a limitare i danni, aprendo per l’occasione una stanza che, precedentemente esclusa dal percorso museale, è da ora destinata alle mostre temporanee.
In fondo questa può essere un’occasione per il Bagatti di farsi pubblicità, attirando il pubblico di Expo grazie al nome di Antonello. Ma soprattutto può essere una fortuna per i visitatori: entrando nel museo, speriamo si accorgano di aver scoperto uno dei gioielli nascosti di Milano.
Foto di copertina: Antonello da Messina, San Giovanni Evangelista; Madonna con il Bambino; San Benedetto (part.), 1470-1475 circa