Latella: il maestro è il progetto, non io

In Interviste, Teatro

Intervista al regista che è al Piccolo con il progetto pedagogico monstre sulla saga degli Atridi

Non si dimentica facilmente la commozione che segue Santa Estasi  la prima volta. È capitato a chiunque sia passato due anni fa da Modena, dal Teatro delle Passioni dove tutto è iniziato, per lasciarsi travolgere dall’insolito, truculento destino degli Atridi come lo racconta questo progetto pedagogico monstre coordinato da Antonio Latella per l’ERT. Poi tutti ne hanno parlato, ci sono stati gli Ubu, il Festival di Avignone e ora finalmente il Piccolo, fino al 27 maggio al Teatro Studio, forse l’unico spazio che poteva ospitare a Milano questi otto spettacoli, da vedere in dosi omeopatiche, uno a sera, oppure – ancora meglio – in una miracolosa maratona da due giorni di stato di trance teatrale, il 26 e il 27 maggio.

Ricordo l’espressione sul viso di Latella a Modena, felice e un po’ incredula. A Milano, a prove iniziate, non mi è sembrato ci fosse più quell’incredulità nel tono pacato con cui mi parlava nel foyer del Teatro Studio. Ma cos’è quest’Estasi a cui aspirerà in queste settimane anche il pubblico del Piccolo? «È lo stato di grazia a cui ogni artista tende – spiega Latella –, con la condanna di non poterci mai arrivare».

 

Perché è Santa questa Estasi?
È in senso ironico, come quando si dice “Santa Madonna!”: l’estasi non è uno stato raggiungibile, ma bisogna provarci lo stesso.

È il suo messaggio pedagogico?
In questo caso il Maestro è il progetto, non sono io. Il mio ruolo è stato mettere sedici giovani attori e sette giovani drammaturghi davanti a qualcosa di grande, persino troppo grande per loro, per chiunque.

Cosa dovrebbe accadere quando si raggiunge l’estasi?
È quel momento in cui sei in scena e non pensi a cosa devi fare, a come devi dire la battuta. Sei in scena e non ti accorgi più di quello che costruisce lo “stare in scena”. Non pensi nemmeno a te stesso: senti solo che le tue parole e i tuoi gesti nascono per quell’unico momento irripetibile. È uno stato rarissimo.

Anche perché è necessario creare le condizioni perché accada.
Intendo questo quando dico che il Maestro è il progetto. Abbiamo ricominciato le prove dopo un anno in cui tutti hanno fatto altre cose, ma ho notato subito quanto questo lavoro sia annidato in loro: mostrano delle qualità incredibili.

Parla di talento?
Non solo. Parlo della qualità del loro stare in scena. È commovente perché valorizza persino i loro difetti, che qui diventano delle condizioni sacrificali.

C’è stato un momento in cui ha capito che sarebbe arrivato un risultato del genere?
Quando ho visto che ero anch’io nella stessa condizione: lì ho capito che cominciavo a chiedere a me le stesse cose che chiedevo a loro, di azzerare, togliere, ricominciare.

Dove voleva arrivare?
Quando osservo gli episodi singolarmente mi accorgo di falle incredibili, di cose che proprio non tornano. Ma durante il lavoro ho accettato di mettere in scena anche frammenti che magari non erano scritti bene. Sarebbe stato più facile tagliarli, ma era importante che capissero perché non funzionavano: serviva uno sforzo registico.

Come hanno reagito?
È stata la forza della loro adesione a convincermi che il progetto creativo conteneva un racconto, che aveva un passo in più rispetto al mercato.

Perché proprio gli Atridi?
È una storia che parla della famiglia, arcaicamente. Eppure oggi non ci siamo allontanati molto. Riconosco in particolare le famiglie del Mediterraneo, che mettono le toppe dove ci sono le falle dello Stato.

 

 

Parla di politica?
Solo del fatto che si deve sempre contare sulla famiglia, perché lo Stato non si occupa di te.

Lei ha potuto contare sulla famiglia?
Sulla dignità della mia famiglia, soprattutto per quanto riguarda il lavoro. Sono figlio di operai ed è stato un valore aggiunto: molti miei coetanei con più possibilità di me facevano fatica a seguire una strada fino in fondo. Nel mio caso o ce la facevo o si tornava in fabbrica.

Quando è arrivato il teatro?
È sempre stata una mia tensione molto forte, dal teatrino dell’oratorio quando ero ragazzino. Sapevo che volevo stare lì.

La prima volta a teatro?
Tardi, con la scuola: avevo sedici anni. Vidi Sei personaggi. Ricordo la sensazione come fosse ieri.

Cosa aveva di diverso quel mondo?
Allora non capivo, ma a cinquant’anni ti rendi conto che serve a stare in un luogo altro da te, in cui sei costretto a parlare a te stesso usando le parole degli altri. Come mi dice la mia nipotina: “Vivi in un universo parallelo”.

È questo il teatro? Un mondo di finzione?
No, è uno spazio di ricerca. Ormai sono diventato molto più concreto di una volta.

Mi vengono in mente alcuni frammenti di realismo nei suoi spettacoli: i biscotti “veri” in Veronika, la fiamma “vera” in Pinocchio.
Non amo il teatro realistico: per me una stanza finta resta una stanza finta. A teatro l’unico specchio della vita è il tempo, perché ti costringe a uscire da quello convenzionale fatto di ritmi e pause. Il tempo realistico spiazza lo spettatore, che spesso non ci sta perché riconosce la noia della vita normale. Ma per mangiare un biscotto vero bisogna prendersi il tempo di farlo, non si può fare finta.

Ho letto che la spinta a fare questo mestiere gliel’ha data il cinema.
Mi piacerebbe ancora fare un film, ma solo per provare un altro linguaggio. A volte durante le prove rimpiango di non avere una telecamera per fermare certi momenti unici che regalano gli attori.

Cosa potrebbe darle il cinema in più?
Solo il primo piano, che teatralmente è molto difficile da fare. Me ne accorgevo soprattutto in un periodo in cui usavo un linguaggio più frontale, che ormai ho iniziato ad abbandonare.

Su cosa lavora adesso?
Sul verso. Vedremo dove mi porterà.

Stavo pensando che i suoi spettacoli dialogano molto tra loro.
Succede quando si lavora per tematiche. Oltre al fatto che in molti spettacoli ho inserito delle finestrelle private, più intime.

Per esempio?
La tensione sul padre: in Cupiello, in Pinocchio e ovviamente nel ciclo degli Atridi.

Lei ha sempre insistito sulla differenza tra regista e drammaturgo.
La drammaturgia ha a che fare con la scelta delle luci, dei costumi, degli attori, dei collaboratori: vuol dire scrivere visivamente uno spettacolo. In Germania un drammaturgo si occupa persino della direzione artistica. Io credo di essere un buon drammaturgo più che un buon regista.

Cosa fa invece un regista?
Ormai il regista novecentesco inteso come colui che guida la nave non esiste più. Forse fare il regista oggi vuol dire esaltare al massimo i talenti di cui ti circondi.

Ha dei registi di riferimento?
A livello visivo ho avuto un innamoramento per Ronconi. Ma per la verticalità Castri: è lui che mi ha fatto capire come si studia un testo. Da spettatore sono stati folgoranti i primi lavori che ho visto di Vasiliev e Nekrošius.

C’è in Italia una missione teatrale da portare avanti?
Far capire al pubblico che non ci si può fermare al “Mi è piaciuto”, “Non mi è piaciuto”. Per questo in Biennale sto cercando di mettere al centro il processo creativo più che lo spettacolo inteso come intrattenimento.

Lascerebbe la regia per questo?
Non credo che la mia natura sia fare il direttore artistico. Ma so bene che la regia per me finirà. Ogni processo creativo segue un percorso finché si resta in contatto con il proprio tempo. Poi a un certo punto si chiude.

 

Immagine di copertina: Antonio Latella. Fotografia © Masiar Pasquali

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