“Antropocene – L’epoca umana” è il documentario di due registi e un fotografo canadese che illustra e definisce l’era geologica attuale, in cui ci troviamo da una settantina d’anni, quella dell’ormai pieno e nefasto controllo del genere umano. Dalla Russia agli Usa, dalla Cina al Kenya al Cile, devastazioni, inquinamento, bracconaggio, deforestazione sono alla base di un cambiamento climatico che rischia di diventare irreversibile e a cui potremmo non sopravvivere. Tutto questo per fortuna sta provocando in tutto il mondo sollevazioni e proteste, giovanili e non: ma potrebbe non bastare
Non amo molto i documentari terroristici, che trattino di alta finanza, social network, mondo digitale, o, come nel caso di Antropocene – L’epoca umana, della nostra disastrosa presenza sulla Terra: quelli in cui da qualsiasi punto di vista si consideri l’argomento i torti stanno tutti e inesorabilmente dalla stessa parte, quasi a dimostrazione di una intrinseca malvagità di banchieri o industriali digitali, stavolta addirittura dell’uomo in generale, preso individualmente o in forma organizzata. Quelli che non lasciano il minimo spazio per un dubbio, una riflessione, un confronto, mentre in realtà quasi sempre solide ragioni economiche, storiche, politiche e sociali più complesse stanno alla base di comportamenti negativi per i più, ma a volte positivi per altri. Però è vero che in questo caso, parlando della sopravvivenza del nostro pianeta e di noi con esso, e della distruzione, di cui ci siamo resi protagonisti in fondo in poche migliaia di anni, delle condizioni ambientali che abbiamo trovato in dote come razza, un approccio drammatizzato, stante la gravità e la drammatica mancanza di tempo che l’umanità ha ancora per rimediare, appare più giustificato che in altri casi.
Urbanizzazione, industrializzazione, sfruttamento intensivo delle risorse naturali, bracconaggio, deforestazione, inquinamento. Sono alcuni dei più devastanti processi messi in atto dall’uomo a discapito del suo stesso pianeta, messi in immagini in Antropocene – L’epoca umana da un terzetto di autori composto dai registi Nicholas De Pencier e Jennifer Baichwal, sua moglie, e dal celebre fotografo Edward Burtynsky, tutti canadesi. Il documentario è il terzo e ultimo capitolo di una trilogia, iniziata nel 2006 con Manufactures Landscapes e proseguita nel 2013 con Watermark, dedicata ad analizzare la fase più critica dell’attuale processo geologico e dell’impronta umana sulla Terra. Gli autori hanno girato venti nazioni tra le più grandi e devastate del mondo, dagli Usa alla Russia, dall’Italia al Kenya, dal Cile alla Germania, dall’Australia alla Cina, condensando poi in 87 minuti alcune delle più profonde ferite inferte dalla società umana al suo habitat e agli altri abitanti. Perché, questa è la sintesi di fondo della pellicola, riconoscere i segni della nostra dominazione umana è già un buon inizio in vista di un possibile cambiamento. Del progetto fa parte anche la mostra Anthropocene, allestita al Mast di Bologna e visitabile fino al 5 gennaio 2020. In originale la voce fuori campo che guida il racconto del film, selezionato da festival come il Sundance, la Berlinale e in Italia Cinemambiente dove ha vinto il premio del pubblico, è quella di Alicia Vikander, nella versione italiana doppiata da Alba Rohrwacher.
Esattamente “antropocene” significa epoca storica “propriamente umana”. Collocata dopo l’Olocene (iniziato 11.700 anni fa), secondo gli scienziati dell’Anthropocene Working Group sarebbe in corso solo a partire dalla metà del XX secolo, quando l’umanità ha iniziato a mettere in atto processi che hanno provocato cambiamenti duraturi e talvolta irreversibili. La tesi degli studiosi è che l’uomo, ospite su un pianeta che ha oltre 4,5 miliardi di anni di vita, abbia portato l’ecosistema, in diecimila anni di civiltà moderna, oltre i suoi limiti naturali, trasformandosi da partecipante alla vita sulla Terra in agente: incontenibile, incontrollabile. Insomma il termine indica l’era geologica attuale, in cui per esempio, per colpa nostra, si rileva un aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell’atmosfera. L’Antropocene sarebbe anche, secondo questa analisi, la “sesta estinzione di massa”. Entro 2100 è a l’intero universo corallino, ma molto prima potrebbero sparire alcune specie di tigri, gibboni, cervi, rinoceronti, la tartaruga egizia e la rana-pollo. Oggi l’uomo controlla il 75% delle terre non ghiacciate e per esempio in Canada, nell’isola Vancouver, grande come un nono dell’Italia, è rimasto un decimo delle foreste originarie. In generale abbiamo modificato, ma sarebbe meglio dire rovinato, l’85% della vegetazione del pianeta, anche perché l’anidride carbonica ha invaso l’atmosfera. L’80% dei ghiacciai in Italia, veniamo a fatti proprio di questi giorni (il Monte Bianco), probabilmente scompariranno (il 100% secondo l’esperto Luca Mercalli), da qui al 2100, se qualcosa non cambia, e il livello mare secondo le stime più prudenti si alzerà di almeno 30 cm, con effetti devastanti su arcipelaghi e coste di tutto il mondo e su città come New York, Amsterdam, Venezia, Hong Kong. Nel 2050 sulla Terra saremo almeno dieci miliardi di persone.
Se queste sono le pessime notizie raccontate in generale da Antropocene, non sono certo da meno le immagini relative a luoghi e fatti specifici, raccolte con eccellente resa fotografica e un impatto che non richiede commenti: per esempio l’infernale visione di Dandora, la colossale discarica di Nairobi, forse la più grande in Africa, dove 10mila persone al giorno rovistano tra le immondizie per recuperare, tra uccelli enormi che abitano stabilmente lì, qualcosa da rivendere, mentre negli slum circostanti vivono 180mila persone. O il panorama delle vasche di evaporazione del litio nel deserto di Atacama, in Cile, dove c’è il più grande giacimento di questo metallo leggerissimo, divenuto indispensabile per il funzionamento delle automobili elettriche (industria teoricamente ritenuta da molti “green”) o le batterie di cellulari e altri strumenti tecnologici. Sul ciclo dell’azoto ha avuto un impatto enorme l’azione dell’uomo, e le striature di colore che contrassegnano una miniera di fosfato della Florida, o le tonalità cromatiche delle miniere di potassio negli Urali, abbinano paradossalmente effetti estetici godibilissimi a un deterioramento irrimediabile.
In Kenia, dove inizia e finisce il film, si tenta di preservare l’esistenza di rinoceronti ed elefanti, messa in serio pericolo dalla caccia illegale. Anthropocene non ci risparmia, nella sequenza di grande forza simbolica ed emotiva che apre e chiude il film, il rituale della cremazione di migliaia di zanne di elefante sottratte ai sanguinosi bottini della criminalità. Un funereo falò, un rogo purificatore al quale presenzia, intervenendo con un discorso vibrante, lo stesso presidente Uhuru Kenyatta parlando del bracconaggio come di un crimine internazionale. Una catarsi che è anche il simbolo del documentario stesso, raccontando tutta la miseria dell’avidità umana. L’occhio si perde a guardare le centinaia di chilometri di barriere frangiflutti in cemento edificate sul sessanta per cento delle coste cinesi, per arginare l’innalzamento dei mari. E secondo Mahamed Nasheed, già presidente delle Maldive, “dobbiamo salvare il corallo a costo di crearne uno transgenico, per la sua capacità di resilienza. Le barriere coralline stanno morendo per il riscaldamento, l’acidificazione degli oceani”.
Le immagini più affascinanti del film sono beffardamente quelle che raccontano alcuni dei misfatti peggiori dell’economia e dell’industria: è accecante il fuoco dei giganteschi altiforni per il rame di Norilsk in Russia, una delle città più inquinate del mondo, con le loro colate che assumono forme anche imprevedibili, e affascinanti sono le riprese notturne, dall’alto, del complesso di raffinerie petrolifere di Houston, Texas, in un gioco di luci e volumi bellissimo. Come abbaglia il biancore delle cave di marmo di Carrara, le cui lastre piene di venature poetiche vengono maltrattate da ruspe, scavatrici, caterpillar vari. C’è una componente di bellezza attraverso la quale viene catturato l’orrore che accade alla nostra Terra? “È vero”, ha raccontato De Pencier, “abbiamo lavorato sodo per rendere questi momenti veramente unici, visivamente travolgenti. Volevamo che questa esperienza fosse molto profonda, piuttosto che avere un film soltanto informativo”. Una comunicazione forse più emotiva che razionale, anche se le notizie che vengono dal film sono tantissime. Continua uno dei registi: “Le cave di Carrara sono come cattedrali. Siamo stati certamente risucchiati dal loro aspetto, ma è stata anche la storia del posto a invogliarci. Gli artisti sono stati attratti da queste location nel corso dei secoli. Noi volevamo far parte di questa tradizione e rappresentare anche la complessità e la meraviglia del lavoro umano”.
Se l’allarme sul clima e l’ambiente è totale, e lo hanno ieri confermato le ultime, partecipatissime manifestazioni, quelle italiane di ieri, della settimana dedicata dal mondo intero al disastro ambientale, si ha comunque spesso la sensazione che questo pericolo lo consideriamo sempre un po’ di là da venire. Ci aiuta ancora De Pencier: “Questo succede perché veniamo costantemente bombardati da piccole pillole di news istantanee. Il volume e la velocità di quei contenuti non aiutano affatto a descrivere fino in fondo il contesto. Diventiamo come “insensibili” davanti alle informazioni davvero importanti. Parte della ragione che ci ha spinti a voler scoprire la ricerca degli scienziati dell’Anthropocene Working Group è stata la loro prospettiva unica, sempre più rara, nel rapporto tra il pianeta e il tempo. Questi scienziati fanno un passo indietro e guardano il pianeta attraverso diverse ere geologiche”. Le loro, insomma, non sono previsioni apocalittiche future, ma ricerche sul recente passato e sul presente. L’emergenza termica non è una questione che riguarderà i nostri nipoti: parla di oggi, di un’epoca in cui siamo già testimoni dei disastrosi effetti dei cambiamenti climatici.