Scaricare o evitare come la peste l’app Immuni è il dilemma della settimana. Secondo la sociologa Shoshana Zuboff se le app ricadono sotto il controllo pubblico, la risposta è sì, servono. E a leggere il suo ‘Capitalismo della sorveglianza’ scopriamo che tutto è già successo: noi, i nostri dati, le nostre preferenze che un algoritmo abile indirizza, siamo la merce sui cui fa profitto il nuovo capitalismo. Ed è alla sua tirannia che deve mirare la battaglia democratica del futuro
“Le app per controllare la diffusione del virus? Dovrebbero esser gestite da istituzioni pubbliche e diventare obbligatorie come i vaccini”. Un’affermazione pragmatica, ma controintuitiva se a pronunciarla, ai primi di aprile, è stata Shoshana Zuboff, sociologa ad Harvard, massima teorica del capitalismo di sorveglianza, di cui ha scritto nell’omonimo libro best seller del 2019, un ponderoso volume di 600 pagine che descrive come le nuove forme dei capitalismo digitale abbiano trasformato la stessa natura umana nella materia prima da spolpare e mettere a profitto, così come ha fatto il vecchio capitalismo industriale con la natura e il pianeta Terra. Niente di buono insomma. L’opera di Zuboff è stata concepita e portata a termine ben prima della pandemia e del lockdown, anni prima, per dirla con il filosofo Giorgio Agamben, dello stato di eccezione in cui ci siamo ritrovati nel giro di 24 ore, accettando volontariamente forme di controllo che mai avremmo immaginato di poter tollerare solo cinque mesi fa. La parola “sorveglianza” in questi mesi si è intrecciata con le nostre vite, sia per i suoi eccessi, che per le sue lacune: l’insufficiente sorveglianza attiva dei malati abbandonati a casa, la mancanza dei tamponi e dei test, le quarantene illimitate che, senza vero controll, si sono trasformate in forme di coercizione ingiustificata. Tracciamento e raccolta dati possono quindi avere due facce, una buona e una cattiva, come ha mostrato la discussione sui rischi per la privacy connessi all’app Immuni, al debutto questa settimana. Anche dal punto di vista di Zuboff, alla faccia dei negazionisti no vax e complottisti da tastiera, le app di tracciamento se sono gestite da istituzioni pubbliche, nel caso di Immuni il Governo e il Ministero della Salute, servono.
Ma leggendo Il Capitalismo di sorveglianza (sottotitolo Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri) durante le interminabili giornate di lockdown, si capisce che tutte le preoccupazioni per le app, per i posti di blocco in pianura Padana e i moduli sulla natura dei tuoi affetti stabili, o i droni che misurano il distanziamento sociale in spiaggia, sono pure contingenze. Quello che noi temiamo possa succedere è già accaduto e non abbiamo, quasi, armi di difesa. Mentre un altro pensatore di successo che ama terrorizzarci sulle prospettive catastrofiche dell’era digitale come Yuval Noah Harari ci ha mostrato come l’uomo stia diventando un tool obsoleto, Zuboff ci spiega come noi, le nostre emozioni, quello che pensiamo, o che pensiamo di pensare e di decidere, ovvero il nostro surplus comportamentale, sia il carburante di un nuovo capitalismo di rapina in mano ad un gruppo di industriali dei big data senza scrupoli e refrattari alle regole, che rispondono al nome di Google, Facebook, e poi a seguire Amazon, Apple, Microsoft. La loro principale attività è raccogliere dati senza il nostro permesso per trasformarli, grazie ad una potenza di calcolo senza precedenti, in strumenti predittivi da vendere alle aziende in modo da predeterminare e condizionare con una precisione sempre più millimetrica i nostri consumi. Un processo che ha una precisa data di inizio, quando nel 2000 Amit Patel, ricercatore di Standford da poco assunto da Google, si rese conto che «era possibile ricostruire, partendo dalle query degli utenti (numero e pattern dei dati cercati, spelling, la formulazione e la punteggiatura della ricerca effettuata on line, il tempo di sosta e la localizzazione) un rilevatore del comportamento umano». Allora anche Yahoo era arrivato alla stessa conclusione, ma rinunciò allo sfruttamento di quei dati. Da allora tutto è cambiato.
Non è che non ce ne fossimo accorti, ma la ricostruzione di Zuboff non lascia scampo. A dispetto degli educati proclami libertari, Larry Page, Mark Zuckerberg e gli altri sono campioni di un neoliberismo spietato, insofferente a qualunque regolamentazione, che ammantano con l’ideologia dell’inevitabilismo: il processo ormai non si può più fermare e chi ne resta fuori è destinato a rimanere a pane ed acqua. Per sopravvivere in questo mondo nuovo la privacy, cioè la nostra identità stessa di esseri umani complessi, è un intralcio. La metafora del mondo nuovo funziona bene per spiegare cosa è successo. Quando noi clicchiamo ok su incomprensibili moduli digitali nei quali ci viene chiesto il nostro consenso sostanzialmente all’esproprio dei nostri dati, secondo Zuboff riproduciamo il pattern della conquista, ossia la pratica del Requerimento messa in atto dagli adelanteros, i primi conquistatori da Colombo in poi, nei confronti dei nativi: ai quali, prima di attaccarli ed eventualmente sterminarli veniva letto, in spagnolo, quindi incomprensibile, l’editto regale in cui si dichiarava che i conquistatori erano lì per conto di Dio e che dovevano sottomettersi. Un atto di legittimazione unilaterale al quale anche noi ci sottomettiamo varie volte al giorno. A cui ex post qualche legislatore, a macchia di leopardo, cerca di mettere una pezza, fino alla prossima app che vanifica gli scudi precedenti.
In questo quadro apocalittico non esistono più santuari, rifugi dove nasconderci, nemmeno nel mondo reale dove siamo sorvegliati dall’Internet delle cose (Iot), spiati dagli elettrodomestici connessi alla rete come gli aspirapolvere robot che mappano casa nostra, dalle innumerevoli forme di geolocalizzazione, da Street View a Google Earth o attraverso la gamification, come ai tempi di Pokemon go. Un programmatore ha spiegato a Zuboff la ratio di tutto quanto in modo semplice: «L’Iot è inevitabile come era inevitabile che la conquista del West arrivasse al Pacifico. Nel mondo il 98% delle cose non sono connesse, per questo le connetteremo. Può trattarsi dell’umidità del suolo o del tuo fegato, in questo caso è il tuo Iot. Il passo successivo è cosa fare con i dati. Li visualizzeremo, ne troveremo il senso e ci faremo dei soldi: in questo caso è il nostro Iot».
La parte più inquietante è che non solo ci arrivano pubblicità mirate sulla nostra timeline sulla base nei nostri gusti, ma i nostri gusti vengono influenzati e indirizzati e riorientati, grazie a sofisticate tecniche di manipolazione emotiva. Il meccanismo ha avuto un incidente di percorso con lo scandalo di Cambridge Analytica, in cui si è scoperto come Facebook fornisse informazioni a terzi per profilare e manipolare le intenzioni di voto degli utenti nelle elezioni presidenziali americane e nella Brexit. Ma il punto è che quella è ancora adesso la procedura standard. Il principio etico che regge tutto il sistema di questo moderno capitalismo è definito da Zuboff l’indifferenza radicale: il valore unico è accumulare e profilare quanti più dati possibile e in qualunque modo, per fare soldi. Se l’hate speech o le fake news servono a questo va bene, fino a quando qualcuno non si mette di traverso e allora si inseriscono blande contromisure, giusto per far passare la crisi e poi ricominciare. Il punto è, come dice Zuboff, che a questo punto non sappiamo più nemmeno se vogliamo quello che vogliamo, perché non siamo più noi a controllare il processo di acquisizione di input, orientamenti, emozioni, ma un algoritmo che non è soprannaturale e neutrale, perché in fondo alla filiera ha l’indirizzo di casa Page o Zuckerberg o meglio il loro conto in banca.
Opporsi a questa che Zuboff chiama “tirannia” del nuovo capitalismo è il compito che assegna alla battaglia democratica del futuro, ai whatchdogs, ai legislatori, agli intellettuali e ai giornalisti. Prima che ci colga la “sindrome cinese”, cioè una certa sfiducia nella democrazia medesima e l’ammirazione per il sistema cinese – visto all’opera in una sorta di prova generale a nostro beneficio sul palcoscenico della Pandemia- che unisce capitalismo di sorveglianza e totalitarismo, ben sintetizzato dal sistema dei crediti sociali che grazie ad un pedinamento digitale dei cittadini cinesi assegna punti ai meritevoli e blocca le attività nel mondo reale a quelli immeritevoli. Nel frattempo sono al lavoro gli artisti, come Leo Selvaggio, di Chicago, che produce maschere in resina per confondere i sistemi di riconoscimento facciale o Adam Harvey che crea vestiti riflettenti per disorientare i droni. O i demetricatori di Benjamin Grosser, interfacce che cancellano da Facebook e Twitter tutti i numeri, per liberarci dalla schiavitù dei like o il sistema di depersonalizzazione, un aggeggio che fa query a casaccio su Google per impedire la nostra profilazione e prendere in giro l’algoritmo.