È una Tosca record quella che ha inaugurato ieri sera la stagione scaligera: oltre un quarto d’ora di applausi, due milioni e 800mila spettatori su Rai1, entusiasmo social. È una Tosca che convince e archivia il verismo di routine e gli effettacci interpretativi. Una Tosca messa in scena con la giusta distanza
Qualcosa è cambiato, a proposito di Puccini, di verismo, di logiche inarrestabili del melodramma, quelle che non lasciano scampo né ai poveri personaggi sul palco né al pubblico piangente in sala. Ce lo assicura la Tosca che ieri sera ha inaugurato la stagione della Scala con oltre un quarto d’ora di applausi, diverse chiamate alla fine di ogni atto, una media di due milioni e ottocentomila spettatori su Rai 1 (record italiano per l’opera in tv), incalcolabili entusiasmi social e commenti da ogni possibile dispositivo connesso a una rete Wi-Fi.
Innanzitutto si capisce che questo drammone, “musicato” più che “musicale” come scriveva Mosco Carner, deve essere più brutale nelle intenzioni che negli effetti. Così fa bene Riccardo Chailly a non lasciarsi mai vincere dalla foga degli eventi, a contenere l’inarrestabile slancio dell’orchestra, magari per contemplare un’atmosfera, per sottolineare ognuno degli innumerevoli capovolgimenti emotivi: dall’idillio del primo atto, quando ancora ci si permette di sorridere, alla catastrofe finale, quando ogni speranza di soluzione si è ormai infranta.
Ma si capisce anche che si tratta di un’opera che sarebbe difficile, o chissà, forse impossibile slegare dalla sua collocazione, dal suo specifico colore ottocentesco. È per questo che Davide Livermore ha saggiamente immaginato uno spettacolo di contenuto tradizionale e linguaggio moderno, dopo essersi giocato il modello Rossellini nell’Attila della scorsa stagione: ma uno spostamento alla Roma città aperta se lo sarebbe aspettato davvero chiunque. Meglio scommettere sulle solite ambientazioni: la chiesa barocca, il palazzo romano, il castello all’alba, purché le si offra al pubblico con una mobilità che segua l’incalzante procedere della partitura, “cinematografica” perché sempre in presa diretta.
Ecco spiegata la danza di elementi scenici, sapientemente coreografati dallo studio Giò Forma in un sali e scendi che non lascia tregua, soprattutto nel primo atto. Anche se, a dire il vero, il movimento di macchina resta più un proposito che un risultato. Ma a parte questa buona idea, la regia di questa Tosca parla un po’ troppo sottovoce, salvo due colpi di scena nei finali di secondo e terzo atto con il doppio della protagonista, prima bloccata con il coltello ancora intriso del sangue di Scarpia, poi sospesa sopra Castel Sant’Angelo in un’assunzione che visivamente deve qualcosa alla rivista. Ma in qualche modo Livermore doveva risolvere i 45 secondi finali aggiuntivi di questa prima versione, giustamente tagliati da Puccini dopo l’esordio romano e mai più sentiti fino a ieri. Decisamente più coraggioso il contributo dei costumi di Gianluca Falaschi, che tendono all’espressionismo grazie a una sorta di combustioni alla Burri di cui ci si ricorderà.
Ma questa Prima ci dice soprattutto che in futuro si potrà vivere anche senza il verismo di routine degli interpreti. Ed era ora. Basta con effetti, effettacci e urla belluine in nome dell’espressione. Detto questo, è fin troppo evidente che la recitazione dei tre protagonisti, Anna Netrebko, Francesco Meli e Luca Salsi, lasci un po’ a desiderare. E non manca nemmeno qualche passaggio al limite del grottesco, come la scena dell’omicidio, con Tosca che, alla terza o quarta coltellata (si perde il conto), decide di finire Scarpia strangolandolo a mani nude: di nuovo il problema delle battute aggiunte in partitura, a volte un minuto a teatro può durare un’eternità. Eppure la pienezza di voce della Netrebko, le mezze voci di Meli e le raffinatezze di Salsi ci assicurano che siamo in un’epoca in cui la morbidezza conta più del piglio, in cui la frase conta più dell’accento. Un’epoca in cui il “Muoio disperato!” di Cavaradossi ci commuove solo a patto che non venga gridato, e in cui “Vissi d’arte” può diventare una pura questione di forma, da cantare con la giusta distanza, quasi tra virgolette, senza sentimentalismi né patetismi.
Come del resto fa Chailly in buca, mettendo in moto con cautela la macchina del destino di questa “folle journée”, con l’orchestra mai così fremente e fisica con il suo direttore musicale, che davvero riesce a evocare quel “tritacarne” di cui i personaggi non si rendono conto finché tutto non precipita davanti ai loro occhi. E di questo cupo crescendo, Chailly sottolinea tutti i presagi sinistri, espandendo fino all’inverosimile le poche soste drammatiche dell’opera, come nel finale del secondo atto, reso con l’angoscia di un lamento funebre. Magnifiche le voci bianche e straordinario il coro di Bruno Casoni, che ha i numeri per affrontare il difficilissimo passaggio a cappella nel finale del “Te Deum”, senz’altro il più interessante tra gli otto inserti riscoperti di questa prima versione. Ottima prova di tutti i comprimari, soprattutto il sagrestano di Alfonso Antoniozzi, un’oasi di buonumore, e lo Spoletta di Carlo Bosi, ma anche l’Angelotti di Carlo Cigni, il carceriere Ernesto Panariello e il pastorello Gianluigi Sartori.
Foto Brescia/Amisano – Teatro alla Scala