Immaginate una bacheca e dei foglietti: abbiamo chiesto ad alcuni autori del week end di Cultweek un pensiero, uno spunto, una citazione, un racconto per questo Natale. Li abbiamo messi insieme ed eccoli qui. Sono i nostri auguri collettivi per chi ci legge
La pacchia del 2018
di Paola Rizzi
La parola del 2018 è “pacchia”, inserita nella locuzione “è finita la pacchia”. Un’affermazione che può essere vista da varie angolature a seconda dei destinatari: quelli espliciti, i migranti, oppure anche quei 54 milioni di italiani che non hanno votato l’autore della frase, Matteo Salvini, il quale si ostina a non calcolarli. Salvini gioca sull’ambiguità per cui la pacchia sarebbe il cosiddetto business dell’immigrazione, ma di fatto lui si riferisce sempre alla pacchia dei “finti” rifugiati, che icasticamente riesce ad annientare nella percezione comune la tragedia umanitaria dei naufragi . È l’esempio più drammatico di stravolgimento del significato delle parole, in un anno in cui la massima morettiana “le parole sono importanti” è andata del tutto a farsi benedire. Con l’abolizione del politicamente corretto, mandato in soffitta dal vento del cambiamento, partito nella pionieristica epoca dei vaffa, che ha portato oggi al sereno sdoganamento della parola “negro”, tornata in auge nel linguaggio quotidiano, esattamente con quel quid di disprezzo implicito per il quale era stata abolita. Abbiamo iniziato con gaffe volute o non volute, smemoratezze (Conte che confonde l’8 settembre con il 25 aprile forse per ora insuperata) proclami rinforzati con iniezioni di insulti. E ci avviamo alla fine dell’anno sotto l’egidia (o Egidia?) dell’Onu. Il 2019 ci prescrive quindi un bel compito: riportare le parole alla loro correttezza, a cominciare dall’ortografia, per finire al significato, depurandole dalla approssimazione e soprattutto della manipolazione. Pesarle: perché ogni parola ha un peso, e quindi delle conseguenze. Sembra facile. Qualche esempio: non usare la parola “clandestini” quando si parla di richiedenti asilo, fino all’ultimo giudizio delle commissioni territoriali non lo sono. I “pensionati d’oro” non sono sordidi profittatori ma persone che hanno usufruite di leggi passate a loro favorevoli. C’è chi ci ha pensato in tempi non sospetti, formulando nel 2017 il manifesto della comunicazione non ostile, di cui Michela Murgia è una testimonial. Ma tocca vigilare a tutti, ripartendo dal basso, dalla comunicazione quotidiana, con il vicino di casa.
Il bambino che nasce
di Marina Piazza
“La neve cade, non mandano i camini fumo
Ma squilli. Ogni vivo è una macchia
Beve Erode. Nascondono i bambini le donne. Chi verrà non può saperlo nessuno
Noi non conosciamo i segni
Potrebbe il cuore non più riconoscerlo.”
Josif Brodskji
Forse l’unico che riconosciamo è Erode che beve e intanto sbatte i bambini migranti e le loro madri a festeggiare il Natale sotto le belle luminarie delle strade, che lascia senza fondi gli orfani dei femminicidi, che “permette” alle donne di lavorare fino al giorno prima del parto, senza nemmeno fare un pensierino ai possibili ricatti delle aziende , che insomma pensa con nostalgia alla famiglia “naturale”. Ma il bambino che nasce in questo Natale era figlio di una famiglia “innaturale” e questo lui ci vuole dire.
IL NOSTRO STRANO NATALE
di Valeria Gandus
Del Natale nella mia infanzia non ho ricordi, perché non l’ho mai festeggiato. Essendo ebrei, si passava oltre. Ed essendo ebrei zero praticanti, non si celebrava nemmeno Hannukkà, che mi sarebbe certo piaciuta. Ho rimediato da adulta: continuo a essere non praticante e per di più atea, ma a un certo punto della mia vita ho cominciato a celebrarla e da allora ogni dicembre, per otto sere, accendo le candele e pongo la hannukkià vicino alla finestra. Non festeggiavo il Natale, non ricevevo doni e facevo piangere le mie compagne di scuola asserendo che Gesù bambino non esisteva, quindi non poteva portar loro alcun regalo (successe una volta sola, in prima elementare, e la mia adorata maestra mi sgridò moltissimo). Però, per non farmi sentire troppo diversa, i miei genitori facevano in modo che anch’io ricevessi il mio bottino di giochi e dolci: dalla Befana, entità misteriosa ma decisamente laica. Era una Befana strana: di solito portava giocattoli necessariamente piccoli (dovevano entrare nelle calze) ma carini. Una volta, invece, solo caramelle: quelle dure, che non mi piacevano per niente. Eravamo a Feltre. Quando chiesi a mia mamma il motivo di quel dono così misero, mi rispose: “ Eh sai, siamo in Veneto, zona depressa, la Befana qui è povera…». In realtà aveva avuto il tempo di trovare solo quelle caramelle mentre io ero affidata alle cure di qualche sua amica e lei accudiva mia nonna, che viveva lì ed era molto malata. Non ricordo quanti anni avessi quando scoprii che a riempire le calze non era la Befana: quella notte, nel maldestro tentativo di infilare una mini macchina da cucire dentro un calzerotto, i miei si fecero scoprire. Io però non feci una piega e continuai a far la finta tonta per anni, metti caso i mei potessero decidere di dare un taglio ai regali del 6 gennaio, visto che li avevo sgamati. Comunque non festeggiare il Natale aveva un indubbio vantaggio: 24, 25 e 26 dicembre con le piste da sci semideserte, un vero sballo. Ho continuato a ignorare il Natale finchè non è nata mia figlia e i miei si son fatti vecchi e mia suocera pure e poi i parenti di mio marito che dai non li vediamo mai e la zia Pina che è sola e lei, povera bambina, come si fa a privarla di una bella festa in famiglia con ricchi doni e cotillons? Una palla tremenda, uno sbattimento di cibo da cucinare (mio marito pretendeva almeno una volta l’anno di cucinare l’oca – non so se avete presente le dimensioni del volatile – manco fosse ebreo pure lui), pentole e parenti da trasportare. Ci si consolava il giorno dopo invitando gli amici a finire i nostri – e loro – abbondantissimi avanzi. Quello era il nostro vero Natale, caldo e divertente.Poi un giorno tutto è cambiato. Il dolore. Il lutto. Il primo Natale senza di lui. Io e mia figlia sole. Quel 25 dicembre decidemmo di mangiare qualcosa e andare subito al cinema: primo spettacolo, ore 14,30: Tre uomini e una gamba. Ridemmo molto e all’uscita trovammo la città imbiancata dalla neve. Sul vetro di un’automobile, invece del solito imperativo “Lavami!” qualcuno aveva scritto “Buon Natale!”. Tornammo a casa con il cuore più leggero. Saranno state le cinque del pomeriggio quando suonò il citofono. Rispose mia figlia: non capiva niente di quanto le veniva detto da un tale con un accento strano. Mi passò il ricevitore e dopo qualche istante invitai il tipo a salire. Lei era stupefatta e preoccupata: “Ma sei matta? Ma chi è?”. Tranquilla, le dissi. Era un buffo ebreo lubavitch accompagnato da un timido ragazzino americano: portavano le ciambelle di Hannukkà e le candele. Videro subito la mia antica hannukkià d’argento (mai usata, almeno da me, fino ad allora) e ne lodarono la bellezza. Misero le candele, spiegarono a mia figlia che cosa significasse il rito, ci fecero accendere, salutarono e se ne andarono into the light of the dark black night. Ecco perché da allora ogni anno accendo le candele per Hannukkà e ripenso con gratitudine a quel dono inaspettato.
Poesia, compagna nostra
di Raffaella Romagnolo
Nel discorso di fronte all’Accademia di Svezia, il premio Nobel Wisława Szymborska dice che i poeti sono persone che, di fronte a ciò che accade, fatti memorabili o minuta cronaca, rispondono “non so”, e poi cercano la risposta. Per loro non vale il detto “è sempre stato così”, perché nulla è ordinario o prevedibile, e la vita non è che sorpresa. E il loro compito di poeti è trovare le parole per dirla, l’incredibile, irripetibile esperienza di essere al mondo.
Questo è il mio augurio per tutti noi: un Natale stupefacente, in senso letterale. Un cambio di prospettiva, uno sguardo diverso su ciò che crediamo di conoscere, e in realtà no. Stupore. Meraviglia. Poesia, insomma, sperando che ci accompagni anche nell’anno venturo.
Caro Babbo Natale
di Francesca Caminoli
Caro Babbo Natale,
Lo so che quest’anno sono stata buona. Ti prometto che l’anno prossimo sarò cattiva. Andrò a Roma con un bastimento carico di rifugiati che hanno appena compiuto diciotto anni e che sono stati sbattuti in mezzo alla strada. Andremo a bussare al Viminale. “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”. Sono sicura che quel signore che gira sempre con il rosario in mano ci aprirà. Se non lo farà allora noi butteremo giù il portone, sistemeremo tante brandine in quel grande palazzo, porteremo panini e bibite, metteremo la musica altissima e balleremo. Se lui si arrabbierà, gli ricorderemo che esiste anche “occhio per occhio, dente per dente”. Così lui, che gira sempre con la maglia della polizia secondo me per fare il bullo, si spaventerà talmente che scapperà a gambe levate, perché, sempre secondo me, lui sa fare il bullo solo con i più deboli, che è una cosa che mi fa arrabbiare da quando ero piccolissima e mi fa venire il prurito alle mani. Poi andrò a Roma con un bastimento carico di poveri. Andremo da quel signore che cammina tutto rigido, senza muovere le braccia che a me sembra un robot e mi fa un po’ paura, quello che ha detto che per la prima volta nella storia ha eliminato la povertà. Sono sicura che quando vedrà davvero i poveri, perché secondo me non li ha mai visti, chiederà scusa a tutti loro per aver detto una sciocchezza. Caro Babbo Natale scrivo sciocchezza perché se scrivessi un’altra parola che comincia per c, finisce per a e ha due z in mezzo, forse ti arrabbieresti. Se non lo farà, gli ricorderemo che chi dice le bugie ha le gambe corte e scommetto che San Gennaro, che lui lo bacia sempre, farà il miracolo e lo ridimensionerà. Infine andrò a Roma da sola. Voglio andare da quell’omino, che poi non lo so magari è anche abbastanza alto, ma a me sembra un omino, che non sorride, che sembra che ha sempre paura di dire la cosa sbagliata, quello che si vanta di aver anche una laurea americana. Gli voglio chiedere, a lui che gira con l’immaginetta di Padre Pio in tasca, se lo sa che chi dice una bugia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù e quando muore va laggiù? Poi gli vorrei solo fare buh per vedere se ha qualche reazione, farlo sedere e spettinarlo per bene.
Caro Babbo Natale, forse non sarò poi così cattiva come avrei voluto. Ti prometto che durante l’anno mi darò da fare per farmi venire qualche idea migliore, così almeno la smetteranno di darmi della buonista.
LA TREGUA
di Roberto Casalini
Scelgo un brano dal bellissimo L‘invenzione dell’inverno di Adam Gopnik (Guanda) come augurio di buone feste per tutti noi.
«La tregua di Natale gode di vita propria in film e video musicali come pure nella memoria popolare, ed è sorprendente scoprire che in questo caso il mito è assolutamente vero. Nel primo Natale di guerra, quello del 1914, in modo impulsivo e totalmente spontaneo, i soldati tedeschi e britannici schierati lungo il fronte occidentale decisero di celebrare il Natale cessando di combattere, scambiandosi fotografie di famiglia, giocando e condividendo tutto il buonumore cui potevano fare appello. Fu una sorta di ammutinamento silenzioso scaturito da quella che era diventata, in tutta Europa, una cultura condivisa del Natale, un movimento popolare partito dalle truppe, fortemente scoraggiato dagli ufficiali. Fu qualcosa di completamente inaudito, completamente illegittimo, e pressoché universale lungo tutto il fronte. Non si trattò in alcun modo di un impulso religioso; i soldati non volevano pregare o cantare inni. Parlarono, si scambiarono ricordi e giocarono un po’ a calcio. Della tregua di Natale del 1914 sopravvivono due fotografie – due soltanto, sbiadite e difficili da interpretare – che mostrano i due schieramenti mescolarsi in modo commovente: i soldati tedeschi con gli elmetti a punta del kaiser e i soldati britannici con i loro berretti, tutti lì in piedi fianco a fianco incapaci di capire perché, poco dopo, avrebbero dovuto ricominciare a massacrarsi a vicenda. Nei successivi anni di guerra, i generali di entrambi gli schieramenti si assicurarono che la tregua di Natale non si ripetesse più. Conoscevano fin troppo bene le sue implicazioni. Per quanto stupidi o addirittura sordidi fossero stati i riti commerciali del Natale sempre più secolare festeggiato dai soldati nella loro vita precedente, quella festa rappresentava comunque ancora dei valori – i valori della comunità, della famiglia, del rinnovamento – diametralmente opposti alla pratica omicida della guerra di massa e al folle nazionalismo che aveva spinto la civiltà occidentale al suicidio. Gli intellettuali pensavano che nella mollezza e nel materialismo degli anni Novanta la vita fosse diventata troppo semplice e troppo simile a un gioco; dal canto loro, gli uomini che combattevano sul fronte occidentale bramavano quella mollezza e quei giochi proprio come li avevano bramati, mezzo secolo prima, gli uomini perduti sui ghiacci polari». Il folle nazionalismo che aveva spinto la civiltà occidentale al suicidio: e se cominciassimo ad ammutinarci anche noi? Buon Natale.
LA FILASTROCCA delle FESTE
di Marina Viola
Buone Feste a chi lavora il giorno di Natale, a chi ha perso il lavoro, a chi mangia il panettone, ma prima toglie le uvette e i canditi, a chi il 24 mangia pesce, a chi senza neve non sembra Natale.
Buone Feste a chi fa il regalo al padrone di casa, a chi non fa regali perché il Natale è diventato troppo commerciale, a chi va a tutti i mercatini, a chi va a messa a mezzanotte.
Buone Feste a chi non si ricorda mai cosa sia la mirra, a chi fa l’albero alla fine di novembre per portarsi avanti, a chi lo disfa a marzo, a chi nasconde il Bambin Gesù del presepe sotto un batuffolo di cotone fino al 25, a chi quando era piccolo lui ci si faceva un regalo a testa e basta.
Buone Feste a chi è ebreo, ma gli tocca celebrare il Natale, a chi aspetta solo la benedizione della casa del prete, a chi appende alla porta i bigliettini ricevuti, a chi non li manda più perché non ha mai tempo di fare tutto, a chi non vede l’ora che sia il 26.
Buone Feste a chi, come mia mamma, festeggia il suo compleanno il 25 e ci tocca farle due regali e la torta con le candeline, a chi se avesse più soldi farebbe regali a tutti, a chi non ha bisogno di niente, a chi avrebbe bisogno di un po’ più di affetto, a chi è solo a Capodanno ma gli va benissimo così.
Buone Feste a chi mangia gli avanzi fino a Capodanno, a chi non ha avanzi, a chi va a vedere il film panettone e dice che è sempre la solita cagata da anni, a chi si addormenta sul divano dopo pranzo, a chi avrebbe voluto almeno un regalino, a chi le feste gli fanno venire la malinconia.
I RAGAZZI TORNANO A CASA
di Assunta Sarlo
A Natale i ragazzi tornano a casa. Prendono aerei, treni, macchine, pullman, si fanno dare passaggi, incrociano coincidenze, contano i giorni. Arrivano da Berlino, da Londra, dalle città d’Europa e del mondo grande che è il loro, oppure partono da Milano, Torino e vanno verso i tanti sud d’Italia. Anzi ‘scendono’, così si dice. Hanno (quasi) tutti uno zaino. Prima telefonano per dare coordinate ed orari e già dicono quando ripartiranno. Conoscono a menadito il percorso e la meta – quante volte hanno già fatto questo viaggio – e li si può immaginare così, come uno stormo che disegna traiettorie in cielo o un piccolo esercito che traccia garbugli sulle strade.
Tornano e vogliono che tutti sia come se lo immaginano o lo hanno lasciato: non vorrebbero vederci invecchiati, né stanchi. Né disillusi. E spiano ogni segnale, ogni avvisaglia, chiedendoci un’implicita rassicurazione da portarsi via. Hanno chiesto i menu di sempre, i tortellini in brodo della zia, il pesce come lo fa solo la nonna, e in ogni casa si ripetono ricette, codici, stilemi del Natale. Rivedranno gli amici, scherzeranno con i cugini, giocheranno con i piccoli di casa. A sera sprofonderanno sui divani. Il Natale sarà com’è Natale, agrodolce. Chiuderanno lo zaino, ripartiranno. Ci sembrerà una gioia più grande, quest’anno, averli avuti con noi per una manciata di giorni, avere avuto in regalo l’energia e la fatica delle loro vite giovani e aperte e, silenziosamente, metteremo in fila dei nomi da tenere, anch’essi, vicini. Nomi di altri ragazzi: l’ultimo è Antonio.