Quinto appuntamento con la rubrica “Scoprendo Milano”: ogni mese, la storia di un luogo, della sua evoluzione architettonica, del suo ruolo nelle trasformazioni della città. Il confronto con Piazza del Duomo, dominata dalla mole della cattedrale, lo spettro delle proprie origini come architettura del regime fascista, la nuova funzione come sede del Museo del Novecento: sono alcune delle questioni con cui ci si trova a fare i conti quando si parla dell’Arengario, uno degli edifici più significativi per comprendere la storia di Milano nel Novecento.
La storia del palazzo dell’Arengario inizia nel 1938 e vede il suo capitolo più recente nell’apertura del Museo del Novecento, avvenuta nel 2010. La storia dell’Arengario, però, non può limitarsi alle traversie di un palazzo ma è un tassello di una storia più grande, quella di piazza del Duomo, che ha visto nell’edificazione dell’Arengario uno dei suoi momenti più interessanti e controversi.
L’intellettuale francese Théophile Gautier paragona il Duomo a un ghiacciaio e “fatica a credere che esso sia un’opera eseguita da mano umana.” Oggi non useremmo gli stessi toni ma la la facciata formidabile del Duomo sembra capace di congelare il tempo in tutta la piazza, tanto che ci risulta difficile accettare anche la piccola novità di un’aiuola.
Come è noto, però, la piazza del Duomo è frutto di una gestazione lunga e tutt’altro che lineare. Se il Duomo stesso, infatti, ha raggiunto il suo aspetto attuale da circa due secoli, la piazza odierna è stata impostata solo dopo l’Unità, con il progetto di Giuseppe Mengoni che trasformò l’irregolare sagrato medievale in un grande vuoto Ottocentesco, in linea con l’impianto barocco delle piazze torinesi. A Mengoni dobbiamo anche la galleria, una una maestosa strada coperta da intitolarsi al nuovo re, che ridefinì gli isolati a nord della piazza, inserendosi perpendicolarmente sul nuovo spazio pubblico.
Il progetto dell’architetto prevedeva anche un grande edificio che sarebbe dovuto sorgere dove sono state piantumate le palme della discordia. Questo ulteriore palazzo avrebbe probabilmente giovato alle proporzioni della piazza ma non fu edificato per motivi economici e la morte di Mengoni, avvenuta in circostanze chiacchierate, congelò lo sviluppo della piazza per decenni. La sola eccezione fu la statua equestre di Vittorio Emanuele II, che fece la sua apparizione agli sgoccioli del secolo.
A inizio Novecento, piazza del Duomo non era poi tanto diversa da come è oggi. Ma restava ancora aperta una questione, che la cultura urbanistica dell’epoca, basata sui concetti di assialità e simmetria, considerava fondamentale. Il sogno di Mengoni di dare delle quinte regolari al fondale del Duomo non era compiuto: il lato sud della piazza, infatti, era ancora dominato da un’ala di servizio del Palazzo Reale, la “manica lunga”, che pungolava diagonalmente il rettangolo ideale della piazza.
Il palazzo Reale, intoccabile ai tempi di Mengoni, perse d’importanza con il nuovo secolo e l’ultima visita di stato risale al 1919. Proprio in quell’anno, infatti, la proprietà del palazzo passò dalle mani di casa Savoia a quelle dello Stato italiano. Questo riaccese il dibattito sulla piazza, e si bandì un concorso per la sostituzione della “manica lunga” con un edificio di testa più adatto al nuovo carattere monumentale della piazza. Un tema ricorrente tra gli architetti, certamente incoraggiati dal regime, fu quello dell’edificio a torre, declinato ora come campanile ora come torre littoria. Fortunatamente, la retorica sfacciata del campanile non risultò vincente.
Ad aggiudicarsi la commessa fu un gruppo di quattro architetti formato da Portaluppi, Griffini, Magistretti e Muzio. Nel 1928 Piero Portaluppi si era già misurato con la risistemazione del sagrato ma il nuovo progetto si poneva a tutt’altro livello: si trattava infatti di ridefinire completamente la piazza. Il progetto dei quattro vincitori evitò il tema della torre in favore di due edifici più bassi dai prospetti gemelli che rispondessero simmetricamente al grande arco della Galleria. La nuova porta così creata diveniva il punto di contatto tra la città antica e il quartiere che si stava rinnovando attorno a piazza Diaz. Coevo dell’Arengario è, per esempio, l’intervento di Asnago e Vender in via Albricci 8.
La porta di questa nuova cittadella del terziario doveva avere una funzione pubblica e per essa fu riscoperta la definizione di “arengario”. Oggi siamo abituati a usare questa parola come se fosse un nome proprio ma il termine è antichissimo ed è sostanzialmente sinonimo di “broletto”. Gli arengari, infatti, erano la sede del potere cittadino ai tempi delle signorie medievali. L’origine della parola si fa risalire al verbo arringare che a sua volta avrebbe a che fare con la radice germanica di anello (ring, in inglese). A Milano, il cerchio dell’assemblea medievale si riuniva infatti nella piazza detta dell’Arengo, uno spazio sul quale oggi sussiste il Duomo. L’Arengario, dunque, è la reinvenzione operata dal regime di uno spazio del potere civico che predata addirittura la fondazione della cattedrale.
Solo così si spiega la monumentalità del progetto, che si proponeva di incorporare molti significati politici e urbanistici. Da un lato, infatti, cercava di rievocare un immaginario addirittura medievale, dall’altro dialogava con le ovvie presenze del progetto di Mengoni, del Duomo e del Palazzo Reale. Il legame con la cattedrale è reso in modo letterale dalla scelta della stessa pietra, il marmo di Candoglia, mentre le grandi arcate a tutto sesto riecheggiano il linguaggio neo-rinascimentale della galleria e rincorrono l’astratto ideale delle piazze d’Italia di Giorgio De Chirico. I fregi di Arturo Martini, con il loro classicismo semplificato portano l’intero palazzo in un territorio magico, conteso tra passato e futuro.
Il fabbricato est, quello a sinistra, è più articolato e trova una connessione diretta con il Palazzo Reale. Questo edificio era l’arengario vero e proprio: con la scalinata monumentale sul lato della piazzetta reale si poteva infatti accedere alla sala dell’assemblea comunale, l’arengo. L’edificio ovest è speculare solo in apparenza: presenta uno sviluppo planimetrico più ridotto e fu destinato a uffici.
La peculiarità dell’Arengario è di essere un esempio di architettura di regime che entrò pienamente in funzione solo dopo la caduta del Fascismo. L’Arengario, infatti, non era ancora terminato quando fu danneggiato dai bombardamenti inglesi del 1943. Negli stessi drammatici momenti andava in cenere l’adiacente sala delle Cariatidi, il fiore all’occhiello del Palazzo Reale e la città si trovò a fronteggiare ben altri problemi. Dopo la guerra seguirono alcuni anni di imbarazzo. L’edificio era troppo connotato politicamente per essere apprezzato nei momenti fondativi del nuovo Stato.
Più tardi però il pragmatismo vinse sull’immagine e Melchiorre Bega si occupò dell’adeguamento degli interni in vista delle nuove funzioni pubbliche a cui il palazzo era stato assegnato. L’Arengario giunse così a compimento nel 1956, un strana creatura nata in un mondo che non era più suo: già era in costruzione la torre Velasca. Persa la funzione originale, il padiglione est divenne sede dell’ente provinciale per il turismo e già veniva utilizzato per mostre temporanee, mentre il padiglione ovest, quello di destra, fu occupato da uffici comunali e del Consiglio di zona del centro storico.
Con il nuovo millennio, a seguito del piano di riordino dei musei civici, l’Amministrazione Comunale ha avviato il progetto di restauro dei due padiglioni. I lavori, coordinati dall’architetto Italo Rota, hanno portato a una trasformazione radicale del fabbricato est, che nel 2010 ha riaperto i battenti come sede del museo del Novecento. L’edificio non risulta mutato nel suo aspetto esteriore; all’interno però, una grande rampa a spirale scava dall’interno il palazzo, come a sottolineare che dietro la pelle dell’edificio di pietra, radicato in un certo momento storico, sono subentrate oggi altre funzioni e nuove motivazioni.
La scelta dell’Arengario come sede del museo risulta particolarmente calzante se pensiamo che l’edificio stesso si situa nel cuore del percorso culturale di cui è testimone la collezione. Dopo l’arte futurista e metafisica, infatti, il visitatore incontra proprio il Novecento di Arturo Martini, del quale il museo propone alcuni capolavori. Nell’ultima parte del percorso, invece, è mostrato come il mondo dell’arte italiana abbia saputo ripartire nel Dopoguerra, con nuove generazioni di artisti formidabili tra cui i famosissimi Lucio Fontana e Piero Manzoni. In questo senso, il progetto di Italo Rota affronta in modo finalmente originale e non dogmatico il tema del riuso dell’architettura di regime. Anche per questo, il museo del Novecento, con il suo passato e le sue opere, è un oggi un luogo fondamentale per avvicinarsi alla storia delle grandi trasformazioni che hanno reso Milano e l’Italia i luoghi conosciamo.
Immagine di copertina: Anni ‘30, quello di Ottavio Cabiati è uno dei campanili proposti per l’area dove sarebbe sorto l’Arengario.