Nell’”Arianna a Naxos”, stasera alla Scala in seconda rappresentazione, le due protagoniste mettono in scena le trasformazioni del femminile. Ma nell’opera del musicista tedesco (il libretto è di Hugo Von Hofmannsthal), che passa dal comico al serio lambendo il teatro totale più estremo e dissennato, c’è molto altro. Per esempio l’aria più stratosferica del teatro musicale del Novecento
Arianna è sola, abbandonata su un’isola deserta, piegata dal dolore di un amore perduto; desidera la morte, nient’altro che la morte. Arianna non è sola, ha un amante ch’è perfino un dio e le giura la più consumata delle promesse: “le stelle moriranno prima che la morte ti tolga al mio abbraccio”. Quale Arianna è vera? Entrambe. In Ariadne auf Naxos, opera “doppia” che Richard Strauss e Hugo Von Hofmannsthal cesellarono insieme nel 1911 e definitivamente nel 1916, Arianna vive la trasformazione che, chissà, forse anche la vita è capace di riservare, non solo le fiction e la letteratura d’evasione.
A toccarci è però qualcos’altro: che questa trasformazione avvenga dopo, dunque “per”, il sortilegio musicale di un’altra donna, Zerbinetta, che di Arianna è l’esatto opposto: non appartiene al mito, vive felice in questo mondo terreno, ama cercando sempre nuovi amori e non conosce fedeltà (“sono sincera, eppure già lo inganno”). A metà del melodramma che si consuma nella seconda parte dell’opera, a coronamento del vano tentativo di convincere Arianna che c’è vita dopo ogni dolore, Zerbinetta canta l’aria forse più stratosferica del teatro musicale del Novecento – nella versione 1911, un diesis più alta di quella della Regina della Notte – e Ariadne auf Naxos deflagra, cambia rotta, s’invera in qualcos’altro. Ma a questo punto, qualcosa del plot bisogna dirla.
Dopo il successo di Der Rosenkavalier, capolavoro della nostalgia, von Hofmannsthal convinse Strauss a proseguire su una linea “leggera”, inventando l’azzardo di un mito (Arianna) abbracciato a una commedia (Il borghese gentiluomo di Molière come prologo). La fredda accoglienza alla prima di Stoccarda (1912), fece dirottare su una soluzione ugualmente legata allo spirito della commedia, ma meno “citazionista”. Il Prologo di Hofmannsthal per la nuova versione del 1916 (quella che sempre si esegue, anche oggi alla Scala) immagina l’allestimento di uno spettacolo double face piegato al capriccio di un ricco viennese. Disturbato dall’idea di un’isola deserta – che tristezza –, il committente pensa di riaggiustare la serata, le cui vere attrazioni sono cena e fuochi d’artificio, ricorrendo a una seconda parte da commedia dell’arte: una compagnia italiana con Arlecchino, Scaramuccio, Truffaldino, Brighella e stellina piccante (Zerbinetta), restituirà il sorriso agli ospiti dopo la tragedia. E sarà una bella fatica, teme Zerbinetta.
A un passo dall’andare in scena, il Maggiordomo, unico ruolo recitante (alla Scala Gregor Bloéb, che per modello sembra aver scelto il maresciallo Radetzky), annuncia al Compositore (en travesti, Rachel Frenkel) e al Maestro di Musica (Markus Werba, da applausi come sempre), due cose da nulla: l’opera seria si farà non prima ma in coda a quella comica (dopo cena, tutti mezzi addormentati, nemmeno se ne accorgeranno); no, meglio, il Signore ci ha ripensato: la seria e la comica si faranno insieme, mescolate l’una all’altra, magari con qualche balletto inframmezzato. Il Compositore sbianca, il Maestro di musica media, il Maître de Ballet non fa una piega.
Nella seconda ma principale parte di Ariadne auf Naxos, l’opera va così in scena celebrando il teatro totale più estremo e dissennato, su un libretto fra i più contorti del Novecento (e non solo), con un cast smisurato (17 elementi, 16 dei quali cantanti), ma un’orchestra leggera, leggerissima, su una delle partiture più ariose che Strauss abbia mai scritto.
Al centro dell’opera, tra la scena di Arianna abbandonata sull’isola deserta e il duetto finale con Bacco innamorato, si alza quell’aria cotonata alla tedesca sui riccioli del belcanto italiano, così che il virtuosismo erotico di Zerbinetta innesca la trasformazione dell’eroina. Trasformazione ancor più clamorosa se si pensa che – a onore della smisurata cultura classica di von Hofmannsthal –, alcune interpretazioni del mito descrivono le origini di Arianna come figura ctonia, legata al mondo dei morti; mentre alla fine dell’opera, felice di ritrovarsi, insieme a Bacco, sotto l’arco della sua caverna ma su “un beato letto e un santo altare”, Arianna si converte nell’opposto: donna fertile e moglie, secondo i valori che soprattutto Strauss teneva alti nella sua concezione (borghese) della vita.
Alla Scala, lo spettacolo di Sven-Eric Bechtolf segue di tre anni quello di Frederic Wake-Walker (2019) e quello di Luca Ronconi (2000, 2006), che non senza motivo ambientava l’opera sull’Isola dei morti di Böcklin. Segue entrambi nel tempo e sta loro dietro, molto dietro. Le scene di Rolf Glittenberg, i costumi di Marianne Glittenberg, le luci di Jürgen Hoffmann arredano uno spazio che vuole essere elegante ma non arrischia metafore né sollecitazioni di qualche peso. Unica idea: due pianoforti spezzati sulle cui code inclinate i cantanti si lasciano scivolare, muovendo una gestualità per lo più di ordinaria amministrazione. Della regia non c’è molto da notare, salvo che alla fine, in cima ai gradini della vellutata sala in cui l’opera si rappresenta, Bacco e Arianna, che dovrebbero iniziare felici una nuova esistenza, si separano con l’aria di mandarsi all’inferno (?).
Michael Boder dirige con ordine un’orchestra da camera non trionfante di colori e un cast discreto, con diversi slittamenti per covid, nel quale da ascoltare e da vedere ci sono sopra tutti Krassimira Stoyanova, Arianna di grande rispetto, e un’apprezzabile Erin Morley inerpicata sui sovracuti di Zerbinetta. Solido, Stephen Gould canta il ruolo da tenore eroico che Strauss si diverte a disegnare sul personaggio di Bacco, che nel libretto sarebbe un giovane dio “malinconico e gentile”.
Spettacolo insomma non esaltante per un’opera che invece sa esserlo, perché, negli estremi di Arianna e Zerbinetta, celebra la donna dall’A alla Zeta.
Foto di Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala