Sedotta e abbandonata, la protagonista di Ariadne auf Naxos di Strauss nella rappresentazione di Frederic Wake-Walker non seduce. Per fortuna compensa la parte musicale. Franz Welser-Möst mostra di essere consapevole della complessità della partitura, della sua natura sperimentale e ambigua
L’opera di Strauss più sofisticata e poetica, Ariadne auf Naxos, è da ieri in scena alla Scala e non bisogna lasciarsela scappare. Un prologo tutto convenienze e inconvenienze teatrali, seguito da un atto d’opera che è un bizzarro miscuglio di mito antico e maschere, con tragedia e commedia messe a confronto senza nessuna intenzione di conciliarle. Per farla breve Hofmannsthal e Strauss al loro meglio, abili creatori di un capolavoro “contra Wagner” e wagnerismi, che va oltre i decadentismi fin de siècle e gli strillati espressionismi, per recuperare un Settecento di realtà e finzione, sostenuto da una partitura che, con meno di quaranta elementi, può passare dallo stile di conversazione all’apoteosi.
Insomma questa Ariadne è una vera sfida intellettuale. Con l’ulteriore difficoltà che una trama vera e propria non ce l’ha: quindi grande agitazione del pubblico, tutto preso a sfogliare programmi di sala per placare i dubbi su un’azione che, almeno nella prima parte, è fatta proprio per confondere e confondersi. Teatro in pieno cortocircuito, con liti tra artisti e un povero compositore costretto a tagli dell’ultimo momento per la rappresentazione privata di un ricco viennese innominato e invisibile. Quanto all’atto successivo, che è appunto la rappresentazione, si svolge nell’immobilità dello stato d’animo della sedotta e abbandonata per eccellenza, Ariadne, “piantata in Nasso” da Teseo e inconsolabile. Geniale contrappunto alla lamentosa protagonista è la frivola Zerbinetta, che col suo catalogo dongiovannesco (ovviamente di uomini) riesce a smuovere l’ostinata depressione di Ariadne, che tornerà a nuova vita non appena l’Heldentenor Bacco sbarcherà sull’isola per consolarla.
Certo c’è la musica, meravigliosa; c’è il canto solenne di Ariadne, quello pirotecnico di Zerbinetta. Ma quanto teatro, esplicito e implicito, ci sarebbe da tirar fuori in quest’opera. Come se l’intera civiltà europea si fosse messa a ragionare su se stessa a partire dai suoi archetipi, dal mito alla commedia dell’arte, per giungere a una sintesi della sua storia con sublime mediazione dell’ironia, dei lazzi, dei rispecchiamenti e degli eterni ritorni. Per non parlare del meccanismo metateatrale, opera nell’opera tipo Salieri e Benedetto Marcello: prima la musica poi il teatro alla moda, per finire con quell’”illusion comique” che porta sempre con sé un po’ di straniante tristezza.
Peccato che il superficiale spettacolo di Frederic Wake-Walker non ci provi nemmeno ad affrontare queste profondità, ritrovandosi ad arrancare fra banali riferimenti pop (Zerbinetta è prima Liza Minnelli poi Whitney Houston, Ariadne dovrebbe essere la Caballè di “Barcelona”, almeno nella seconda parte) e insignificanti effetti luminosi anni Ottanta nel finale, pure un po’ instabili. Nel prologo un gruppo di guitti molto sopra le righe si accampa nel palazzo patrizio con delle roulotte. Invece la seconda parte è ambientata in uno studio di registrazione, con un gioco di analogie tanto evidente quanto irritante. Il mare è la musica, anche visibile nelle onde sonore proiettate; l’isola è lo studio, insonorizzato dal resto del mondo; la grotta di Ariadne è un bianco basamento-piedistallo-water in cui la stoica Krassimira Stoyanova viene calata dopo le sue due arie.
Peccato, perché Wake-Walker aveva dimostrato un po’ di talento nelle scorse prove mozartiane viste alla Scala: in ordine cronologico Le nozze di Figaro e La finta giardiniera, lavori un po’ grezzi ma pieni di inventiva. Stavolta pare non avesse proprio idea di cosa fare.
Fortuna che la parte musicale compensi la mediocrità della regia. A differenza di Wake Walker, Franz Welser-Möst è consapevole della complessità della partitura, della sua natura sperimentale, ambigua e continuamente instabile, in cui nulla è come sembra e ogni elemento è pronto a trasformarsi, a trasfigurarsi. La sua direzione è autorevole e precisa, leggermente in debito di reattività teatrale nel prologo e di sensualità nell’opera. Tuttavia non si può fare a meno di notare che il suo lavoro di “ariadnizzazione” della Salome – che rifarà a Salisburgo quest’estate – sia più convincente dell’Ariadne vera e propria.
Trionfatrici della serata sono Krassimira Stoyanova e Sabine Devieilhe. La prima per la sua Ariadne di riferimento, per la qualità dei legati e delle messe di voce, oltre che per l’interpretazione dolente. Quanto alla Devieilhe, la vitalità del personaggio sta tutta nel suo brio. Maschera dall’inizio alla fine e per questo più autentica di tutti gli altri, Zerbinetta è come Arlecchino: senza doppio, anche se a dire il vero il due è per lei un numero chiave in ben altri frangenti. Discreto il Bacchus di Michael Koenig, ottimo il maestro di musica di Markus Werba. Più in difficoltà Daniela Sindram nella meravigliosa ma difficile parte del compositore. Successo personale per lo spassoso maggiordomo di Alexander Pereira.
fotografie: credit Brescia/Amisano -Teatro alla Scala