Il capolavoro di Goldoni, reso immortale dalla regia di Giorgio Strehler, ritorna ancora una volta a Milano con il leggendario Ferruccio Soleri nei panni di Arlecchino. Noi abbiamo intervistato due spettatori molto speciali che andranno a vedere lo spettacolo…
Che Piccolo Teatro sarebbe, in questi pomeriggi dolcemente assolati che anticipano l’estate, senza l’Arlecchino servitore di due padroni di vocazione goldoniana e riletto dal vigoroso piglio registico del grande Giorgio Strehler? Un Piccolo Teatro con un pizzico di identità in meno. Ve l’avevamo già detto l’anno scorso: l’Arlecchino interpretato da Ferruccio Soleri, dai coloriti e lontani (o forse non troppo) anni Sessanta, ha superato le 2.000 repliche ottenendo plausi internazionali e addirittura una menzione nel Guinness dei Primati come record for the most consecutive theatre performances in the same role, «il record per la più lunga performance teatrale consecutiva nel medesimo ruolo».
Dal 3 al 22 maggio ritorna, sulle tavole del Piccolo, quello che è diventato lo spettacolo italiano più rappresentato in tutto il mondo: da New York all’America latina, dalla Russia alla Cina, replica dopo replica la versione strehleriana, originata nel 1947, ha conquistato platee dalla cultura eterogenea. Una visione metateatrale dalle geometrie funamboliche, quella di Giorgio Strehler, che poco a poco è diventata uno dei simboli più rappresentativi di intendere la comicità, un gioco caleidoscopico in cui c’è spazio per lazzi e buffonerie, ma anche per una vena d’amarezza malinconica e dolciastra: un equilibrio mirabile che, per tre ore, racchiude tutta la bellezza generata dal fare teatro.
Nel 1947 il primo Arlecchino fu Marcello Moretti, protagonista di una relazione “complicata” e profondamente malinconica con il suo Arlecchino; alla sua morte, nel 1963, subentra colui che il personaggio è riuscito a cucirselo addosso in maniera diversa, Ferruccio Soleri. Il debutto in realtà era avvenuto il 28 febbraio 1960, a New York, con Soleri praticamente spinto in scena da Paolo Grassi. Tre anni dopo, alla morte di Moretti, arriva la titolarità: è così che Arlecchino smette i panni semplici ed è animato da una spinta atletica, da un moto acrobatico agevolato dalle capacità danzerine dell’iconico Ferruccio.
La nuova impronta ispira ancora di più il già consolidato lavoro di Strehler, e cattura l’affezione del pubblico in breve tempo. Attorno a lui e Moretti, negli anni, si sono alternati attori di spicco del nostro panorama: Giulia Lazzarini, Giancarlo Dettori, Gianrico Tedeschi, Andrea Jonasson, Gianfranco Mauri, Enzo Tarascio. Vale la pena ricordare il 1987 è l’anno della cosiddetta Edizione dell’addio, in occasione del quarantesimo compleanno del Piccolo: i comici sono stanchi, e si impone un passaggio di consegne che porterà all’Edizione del Buongiorno, che vedrà protagonista Soleri insieme ai diplomati della scuola del Piccolo Teatro. Un addio che doveva essere necessario, nelle intenzioni di Strehler:
«è un addio che diamo ad una nostra avventura teatrale antica, ma sempre rinnovata nel tempo. Noi, quelli che siamo rimasti di una compagnia nata nel 1947, ci sentiamo il simbolo dei tanti interpreti che hanno dato vita ai personaggi di un testo e di uno spettacolo certamente straordinario (…) Per il resto, gli attori dell’Arlecchino 1987 sono stanchi. Hanno il diritto e il destino di essere stanchi» (Giorgio Strehler, Il Quadrivio Rovigo)
Ne venne fuori un’edizione sospesa e rarefatta, connotata da profondo lirismo, estremamente malinconica, illuminata da candele sparse sul palco – che per una sera fu eccezionalmente quello della Scala.
Insomma, una tradizione che ormai fa parte della storia del costume di Milano e dei suoi avidi spettatori teatrali. Tanto che chi si appropria del capolavoro di Goldoni rischia grosso: lo sa bene Antonio Latella, che dopo aver letteralmente “scarnificato” e smascherato (in tutti i sensi) Arlecchino – e avergli dato un vestito contemporaneo – è stato trafitto dagli strali della critica e dal disappunto del pubblico.
Torniamo però a Strehler: del resto il “suo” Arlecchino è un’opera intrisa di profonda, incontestabile italianità. Le contraddizioni, la farsa e la tristezza nel grande giuoco delle maschere ci raccontano chi siamo stati ma anche chi saremo: un sottile scandaglio psico-socio-culturale in grado di rappresentarci, e di unirci. Le ragioni di un successo tanto conclamato e ricorrente, dunque, non sono poi così paradossali, anzi.
Chi scrive, da sempre animato da curiosità spesso morbose, si è da sempre chiesto: ma esiste qualche appassionato di teatro che vuole definirsi tale senza aver mai visto Soleri alle prese con la pasticciona maschera reinventata da mastro Strehler? E soprattutto, c’è qualche habitué recidivo che si reca in processione nella storica sala di via Rovello, pronto a lasciarsi incantare, stagione dopo stagione, dal simpatico servitore di due padroni? La risposta è affermativa, in entrambi i casi (clinici, scriverebbero le penne più al vetriolo). E la sentiremo dalla viva voce di due titolati rappresentanti di entrambe le categorie.
Il primo è Alberto, uno studente di 21 anni iscritto alla Facoltà di Medicina e Chirurgia di Milano. Non solo libri di fisiologia e bisturi, nel suo invidiabile presente: il giovanotto è altresì un enorme appassionato di teatro e teatri, tuttavia ancora illibato di fronte all’universo soleriano che, nei prossimi giorni, scoprirà per la prima volta. Lo abbiamo raggiunto in corsia, e gli abbiamo fatto due domande – del resto medicina e scena non sono mai state perfette estranee, e chi ha ancora dei dubbi in merito dovrebbe dare una rispolverata alla bio di Anton Čechov. Cosa si aspetta questo futuro luminare dall’incontro con uno spettacolo che ha tre volte la sua età? «Quando vado a teatro cerco sempre di non avere mai troppe aspettative», ammette. A chi lo dici, Alberto… «È anche vero che uno spettacolo così importante, che dura da così tanti anni… ne ha dell’impegnativo. Anche solo a livello di “preparazione mentale”», continua. In che senso? «Be’, Goldoni, Strehler, in mezzo mettiamoci pure Mozart. Una tradizione che va avanti da anni, a confronto ci si sente piccoli piccoli!». Può starci, ma tu cosa ti aspetti dallo spettacolo? «Ripeto, non mi aspetto niente. Spero che mi emozioni, tutto qui. E sono molto curioso di vedere Ferruccio Soleri all’opera», confessa. Perché? «Tornare ogni anno sul palco, da tutti questi anni… non è più nemmeno routine, diventa identificazione quasi totale, no?», chiede in maniera candida. Ma questa è una domanda cui non si può dare risposta, caro Alberto, dovremmo chiederlo a Ferruccio Soleri.
Da chi è ancora all’oscuro di quanto vedrà sul palco passiamo invece a chi è informato sui fatti. Forse anche troppo, come Carlo Belgir, che non è soltanto il proprietario (hai detto niente…) di un raffinatissimo atelier del tessuto in Corso Venezia, ma è anche uno di quegli spettatori squisitamente milanesizzati mai troppo sazi di cinema o teatro. Lo incrociamo tra un broccato e un foyer, travolti dal suo simpatico carisma. Il suo rapporto con il Servitore affonda le sue radici in un glorioso passato: «L’Arlecchino diretto da Giorgio Strehler lo vidi per la prima volta nel 1955 insieme ai miei genitori». Cosa ricordi? «Ero molto piccolo, ricordo solo i colori e la vitalità e l’interpretazione delle maschere che mi aveva impressionato…» Be’, di certo quello lì non sarebbe stato l’unico momento di confronto con il batocio: «Direi di no. Lo spettacolo l’ho visto una cinquantina di volte» Cinquanta?!? «Sì, cinquanta!», ripete orgoglioso. L’edizione che tieni nel cuore? «Sicuramente quella dell’addio: un po’ per l’emozione di perdere uno spettacolo per sempre, un po’ perché la rarefazione in cui era recitato rendeva il tutto più emozionante» Carlo, perdonaci, ma per quanto qui si ami Strehler, Goldoni e Soleri cinquanta volte son tante… cosa varia replica dopo replica? «Qualcosa cambia in tutte le edizioni», mi rimbecca velatamente Belgir, «soprattutto a livello di regia: ognuna viene vista da un angolazione piuttosto che da un’altra», continua. Non riesco a trattenermi: scusa, ma perché vederlo in maniera così… ossessiva? «Lo vedo spesso perché secondo me l’Arlecchino rappresenta la più alta punta registica mai ottenuta in teatro: tratta con leggerezza e profondità tutti i temi del mondo, dall’umano al sociale al culturale, in una perfezione di ritmo e di invenzioni unica». Noi, dal canto nostro, siamo d’accordo. E chiediamo a Carlo: cosa si aspetta dall’edizione 2016? «So che mi emozionerà sempre, come da ragazzo. E posso dire un’altra cosa?» Non glielo impediremo certo noi. «Bene: viva il Piccolo Teatro!»
E noi aggiungiamo: viva l’Arlecchino di Soleri – e di Strehler, di Goldoni…
Arlecchino servitore di due padroni, al Piccolo Teatro dal 3 al 22 maggio