Stephen Frears racconta in “The Program”, con acrimonia britannica e grandi virtù narrative, l’irresistibile ascesa (e poi la caduta) del ciclista americano
Lo sguardo di Stephen Frears e la penna di John Hodge raccontano in The Program con interessante taglio psicologico i retroscena, ormai tristemente noti, di quei sette Tour de France vinti da Lance Armstrong grazie non alla tenacia ma all’astuzia, frutto di iniezioni di farmaci dopanti (EPO) e in qualche modo anche di campagne mediatiche, immagini, spot promozionali per organizzazioni benefiche, che tramutarono quel sogno umano di infallibile vittoria quasi in uno specchio terreno dell’eternità. E a 10 anni dalla sua ultima apparizione, non vittoriosa, al Tour de France, quella vicenda sportiva racconta in modo molto puntuale il dilemma etico della competizione, non solo in ambito agonistico ma anche umano e sociale, nel momento in cui certe regole vengono abbandonate per concentrarsi, interrogarsi più sul quanto vincere che sul come vincere.
Se ascoltassimo il parere di un grecista, ci troveremmo probabilmente di fronte al classico caso di hybris, un Armstrong-Achille vincente, mosso dal desiderio di non voler più perdere contro le insidie della vita e contro quel cancro ai testicoli che lo costrinse a letto un anno, in bilico tra vita e morte; per poi riaffermare la sua esistenza tornando come uomo forte, uscito dal trauma. Ma quello che Ben Foster, nei panni del campione americano, ci racconta, non è soltanto l’orgoglio legittimo del malato guarito, bensì l’ambizione estrema di chi vuole ergersi a campione imbattibile, con ogni mezzo, per costruirsi un potere personale. Tutti sono nemici e tutto è legittimo per essere il migliore e non cedere mai, in un gioco dove vita e gara si mischiano troppe volte, mentre regole ed etica lasciano spazio a un sogno umano realizzato con l’aiuto di uno stratagemma simile al patto faustiano, al sortilegio, all’incantesimo.
Qui il mago è Michele Ferrari, il medico sportivo che col suo “programma” chimico rende invincibili gli atleti, infondendo in loro la speranza di potere e gloria. E il compagno di squadra Floyd Landis, più disturbato di Lance dai suoi principi morali, è una pedina da usare quando serve, lui pure vittima morale del “quieto vincere”, a tratti in lotta con sé stesso e con la vita, ma egli stesso alla ricerca di conferme autoreferenziali. Finché…
Così l’unico avversario coerente è il giornalista David Walsh, il cui libro ha ispirato il film, che cerca invece di fare luce su un sistema sempre più corrotto, non sempre difeso dal suo stesso direttore e che finisce per subire lo sdegno dei colleghi e del mondo ciclistico, incapace di prendere misure che restaurino la correttezza perché prigioniero della visibilità e di molti vantaggi personali. Ben si articolano nel film i punti nevralgici di un rapporto che non riguarda solo un atleta e le sue ambizioni, ma il modo in cui è costruita la “società sportiva dell’immagine”, garantita da sottili giochi politici dietro cui si intravedono strutture economiche gigantesche. Siamo vittime di una grande menzogna che arricchisce tutti, oppure il successo può essere davvero un frutto meritato del proprio lavoro? E la speranza che vada così è solo illusoria? Il film ci racconta tutto questo con l’intenzione di una tragedia sofoclea: forse tardi, ma ci si arriva.