In “True Mothers” di Naomi Kawase (“Le ricette della signora Toku”) si fronteggiano la giovane Hikari, che a 14 anni ha messo al mondo un bambino ma non è in grado di crescerlo e Satoko, la ricca e sensibile signora che l’ha adottato col marito. E che sei anni dopo riceve una telefonata in cui la ragazza le chiede di restituirle il piccolo. O di risarcirla con una somma di denaro. Un film delicato e introspettivo, con un cast eccellente e molti temi di attualità psicologica e sociale in primo piano
Sui conflitti legati all’adozione, tra madri biologiche e madri “legali”, ma anche fra ragazzi adottati in cerca di identità e i genitori acquisiti, il cinema si è già espresso più volte, da Segreti e bugie del britannico Mike Leigh a La guerra di Mario di Antonio Capuano. E anche il teatro, a cominciare dal famoso Cerchio di gesso del Caucaso di Bertolt Brecht, ispirato a una leggenda orientale. Dal Giappone arriva ora il più recente film sul tema, True Mothers (titolo internazionale) di Naomi Kawase basato su un romanzo del 2015 di Mizuki Tsujimura. Era selezionato per il Festival di Cannes 2020, il più sfortunato della storia, mai andato in scena per via della pandemia da Covid 19. In precedenza sulla Croisette la 52enne regista di Nara, città dove anche questo film in parte è ambientato, aveva vinto nel 1997, poco più che trent’enne la Camera d’Or col suo lungometraggio d’esordio Moe no suzaku e il Gran premio speciale della Giuria nel 2007 per il coraggioso Mogari no mori, entrambi mai distribuiti in Italia. Dove invece qualche anno fa si è vista il delicato racconto familiare Le ricette della signora Toku.
True Mothers, che ha rappresentato il Giappone lo scorso anno all’Oscar per il miglior film in lingua straniera, ha una struttura narrativamente complessa, diviso in due parti distinte tra loro con un prologo e un epilogo in cui le due madri protagoniste entrano in contatto in modi non sempre chiari, espliciti. Kawase usa liberamente il tempo e lo spazio della sua sceneggiatura, andando spesso, anche repentinamente, avanti e indietro nei fatti, forte del suo expertise in fatto di montaggio e degli studi raffinati in fotografia, applicati ai personaggi ma soprattutto al contesto naturale e urbano, che cambia più volte. Soprattutto di Hikari, che passa dai suoi 14 ai 20 anni con un mutamento consistente. è lei la madre naturale del piccolo Asato (lo interpreta il bravo Reo Sato), affidato alla coppia formata da Satoko e dal marito Kiyokazu, che dopo le sofferenze causate da una serie di trattamenti di fertilità senza successo, alla fine optano per la strada dell’adozione, appoggiandosi a un amorevole e al tempo stesso inquietante struttura di accoglienza per madri, spesso ragazze-madri, non in grado di gestire il/la futuro/futura figlia. E che quindi decidono, spesso su forte sollecitazione della famiglia d’origine, di partorire in questa struttura, lontana da casa e dagli occhi e dalle orecchie della gente, per separarsi subito dopo la nascita del “frutto del peccato”, come una volta si scriveva sui giornali, affidando la creatura a chi non è riuscito ad averne.
Hikari, rimasta incinta adolescente al suo primo rapporto sessuale con un coetaneo di cui era innamorata, viene di fatto obbligata dai genitori a seguire questa strada, e ciò provocherà un frattura definitiva fra loro, cui seguiranno sei sciagurati anni di povertà e precarietà di vita e di lavoro per l’infelice ragazza. Così Satoko, che ha lasciato il lavoro per concentrarsi sul bambino e vive un’esistenza pacifica, felice, riceve un giorno una telefonata in cui la giovane dice di volere indietro il figlio, o almeno una ricompensa in denaro (lo dirà in realtà nel primo incontro coi genitori adottivi). La coppia non aveva più avuto sue notizie, e Satoko non accetta di riconoscere in quella donna magra e sciupata che suona alla sua porta l’adolescente che ha dato alla luce il loro figlio a Baby Baton, dove si erano conosciute. Ma degli ultimi anni della sua vita non sa nulla, e il finale del film la costringerà, forse con un tono fin troppo consolatorio e di rappacificazione, a ripensare a molte convinzioni sbagliate nutrite nel corso del tempo.
Kawase è una delle più brave registe nipponiche, capace di giocare soprattutto con l’introspezione, l’interiorità dei suoi personaggi, anche quando sono di fronte a rivelazioni ed eventi drammatici, a conflitti profondi (come in questo film e in altri) che potrebbero spingerli verso reazioni forti. Stavolta gioca forse un po’ troppo con il registro del melò, in particolare nelle relazioni delle due donne, protagoniste a distanza del racconto, con le presenze fondamentali delle loro vite. Così cerca poi di controbilanciare questa atmosfera con più di un tocco di mistero, quasi venature noir, nell’evoluzione dei caratteri e delle loro storie. E con più di un’annotazione sociale, anche esplicita, polemica, sulla vita delle giovani ragazze povere del suo paese, osteggiate in famiglia e sfruttate nel mondo reale.
Nel complesso però True Mothers è soprattutto una serie di ritratti di individualità forti, a volte opposte a volte meno lontane di quanto sembrino, affidate a un cast di attrici molto convincenti: dalla disarmata ma in fondo tutt’altro che debole Hikari (Aju Makita) alla tormentata e sincera Satoko (Hiromi Nagasaku), dalla protettiva direttrice di Baby Baton (Miyoko Asada), che ha aperto quel rifugio per donne in difficoltà forse per compensare il senso di minorità dovuto all’impossibilità di avere figli, a Kiyokazu (Arata Yura), unico maschio in primo piano, misurato nella sua un po’ mesta, amorevole solidarietà di marito.
True Mothers, di Naomi Kawase, con Aju Makita, Hiromi Nagasaku, Miyoko Asada, Arata Yura, Reo Sato