Siamo alla terza puntata della rubrica “Milano e i suoi architetti”: ogni mese, un ritratto dedicato a un grande dell’architettura del Novecento che ha legato la sua vita e la sua opera a Milano. Less is more: Claudio Vender e Mario Asnago, in più di quarant’anni di lavoro condiviso, hanno messo a punto un’idea di architettura che produce bellezza dall’ordinario. E con gli strumenti del mestiere hanno contribuito a plasmare il volto di Milano.
“Il moderno si contenta di poco” Paul Valéry, Cahier B 1910
Asnago e Vender rientrano nel ristretto numero di architetti che, operando in modo estremamente rigoroso e metodico, sono in grado di rendere bello l’ordinario, riscattando la routine e conferendole nuova qualità. A prima vista le opere di questo duo milanese non sembrano differire da altri edifici, realizzati da esecutori meno talentuosi; solo ad un secondo sguardo, più approfondito, si rivelano sottili asimmetrie, sapienti giustapposizioni, misurate variazioni che rendono gli interventi di Asnago e Vender notabili esempi di un’architettura concepita in quanto tale, senza riferimenti ideologici o storicisti. Il risultato è una bellezza pura ed equilibrata, non strumentalizzabile e difficile da imitare.
Il duraturo sodalizio tra Mario Asnago e Claudio Vender risale al 1923, quando i due presero parte al concorso per il monumento ai caduti di Como; da lì ha avuto inizio un percorso di ricerca destinato a durare fino alla metà degli anni Settanta. Milano fu il vero e proprio fulcro della produzione dei due progettisti: le numerose case d’abitazione realizzate durante la loro prolifica carriera contribuì a costruire una nuova immagine della città. Dopo aver fatto propri i temi compositivi del modernismo italiano anteguerra, Asnago e Vender elaborarono una poetica architettonica inedita, che non si limitò a sapienti declinazioni della griglia costruttiva moderna ma che incluse anche sottili ambiguità, leggere asimmetrie, piccole eccezioni. L’approccio del duo milanese sembra ricalcare il modus operandi del pittore piuttosto che dell’architetto; non a caso entrambi frequentarono l’Accademia di Belle Arti di Brera. Le loro composizioni sembrano infatti frutto di una sensibilità pittorica che smorza, ritocca, sbilancia e riequilibra, piuttosto che dell’approccio ordinatore dell’architetto, obbligato a seguire linee strutturali, dimensioni minime e spessori degli elementi costruttivi. Lo spazio della ricerca di Asnago e Vender è comunque dettato dalla città e dalle sue norme: essi si trovano ad operare nell’ambito di necessità economiche e di legislazioni edilizie che imponevano regole e condizioni precise alle nuove edificazioni; tali imposizioni non furono viste come limiti dai due progettisti, ma anzi come occasione per poter riscattare il banale. Gli edifici di Asnago e Vender, destinati soprattutto alla buona borghesia milanese, non rompono con il desiderio di abitazioni urbane comode e dignitose, ma anzi le assecondano, per poterle nobilitare con interventi studiati ed eleganti. Questo atteggiamento conciliante è estraneo a scelte elitarie o polemiche; le tecniche edilizie vengono sublimate in un linguaggio puro, astratto, in cui si evita una rottura con le consuetudini per poterle riscattare dall’interno; così facendo i due architetti milanesi riescono a riscattare il banale, il già visto, il consueto, conferendogli una rinnovata qualità, dove contano dettagli e chiarezza degli intenti.
Sin dai primi progetti, riconducibili agli inizi degli anni Trenta, nell’opera dei due progettisti è evidente l’influenza della formazione artistica: ad esempio nell’edificio di abitazioni in via Manin 33 (1933) la composizione delle facciate tramite finestre, arcate e riquadri ciechi, di linguaggio novecentista, moltiplica le ombreggiature e l’effetto chiaroscurale, sortendo un effetto quasi pittorico. In questo progetto è evidente l’influenza che ebbe sui due architetti l’insegnamento di Vittorino Colonnese, allora docente all’Accademia di Brera, che con Muzio e Barelli aveva progettato la Cà Brutta nella vicina via Moscova. Nell’edificio in viale Tunisia 50 (1935) l’effetto chiaroscurale è ricercato attraverso elementi funzionali, spiccatamente gerarchizzati, di influenza più modernista: nei piani bassi il volume compatto dell’edificio è scandito dal serrato ritmo delle finestre verticali provviste di balconcini; nei piani superiori invece prevalgono i leggeri balconi e lo sfondamento della facciata, che arretra di mezzo metro, differenziando così il blocco superiore da quello inferiore.
Dal 1939 inizia l’avventura che segnerà la carriera e il linguaggio di Asnago e Vender, ovvero la progettazione dell’edificio per uffici e negozi in via Albricci 8, a cui seguirà la costruzione di quasi l’intero isolato. Occasione più unica che rara per un progettista: avere la possibilità di costruire una parte coerente di città, che in questo caso spicca per la sua componente inedita rispetto agli edifici circostanti. Anche in questo caso i due architetti assecondarono le richieste del regolamento edilizio e della convenienza economica, che richiedevano il raggiungimento della massima superficie edificabile possibile, riuscendo però a nobilitare questa condizione come punto di partenza per una straordinaria ricerca compositiva. Gli edifici che si susseguono lungo via Albricci sono legati dalla perfetta complanarità delle facciate, che formano così una cortina continua, scandita da bucature e da eleganti variazioni di colori e di materiali, in cui la concezione unitaria non si identifica con l’uniformità figurativa ma piuttosto con la possibilità di formulare un linguaggio dello spazio urbano che prevede variazioni all’interno dello stesso schema.
Il primo edificio in ordine cronologico, in via Albricci 8 (1939-41), riprende la familiare divisione tra basamento e piani sovrastanti, sottolineata anche dall’utilizzo del marmo per la fascia inferiore e dal klinker per quella superiore. Tale orizzontalità è però attenuata dall’andamento verticale, scandito da finestre le cui dimensioni nei piani alti corrispondono esattamente alla distanza tra l’una e l’altra. L’elemento inedito è rappresentato dall’allineamento a bandiera a destra delle finestre superiori rispetto a quelle del basamento, più larghe: questo accorgimento fa sì che nella facciata vi sia una sorta di scatto verso destra, accentuato dalla divisione asimmetria dei serramenti, che movimenta la composizione. Nella seconda tappa, in piazza Velasca 4 (1947-52), lo schema dell’edificio precedente viene ripreso: anche qui infatti ritroviamo la divisione basamento-piani superiori e l’allineamento a bandiera delle finestre, ma in questo caso la scelta di far prevalere i pieni sui vuoti delle finestre e di collocare il grande rettangolo dell’ingresso in posizione asimmetrica sembra suggerire una visione di scorcio dell’edificio, generando una sequenza visiva cangiante e inquieta. Il terzo intervento, in via Paolo da Cannobio 33 (1950), contiguo al primo edificio in via Albricci 8, presenta evidenti similitudini con il palazzo vicino; si riscontra però l’introduzione di alcune alternazioni proporzionali, che preludono ai risultati della produzione successiva del duo di progettisti. Il quarto e ultimo intervento, in via Albricci 10 (1956), conclude la lunga vicenda dell’isolato. La composizione delle finestre non differisce da quella degli edifici precedenti, ma la soluzione volumetrica dell’angolo, che prevede una curva sull’ultimo tratto affacciato su via Albricci, in parziale aggetto sul basamento sottostante, rappresenta un elemento di novità rispetto alla complanarità dei palazzi adiacenti.
Nelle opere successive la necessità di lievi asimmetrie e eccezioni, che di nuovo si richiamano alla sensibilità pittorica dei due progettisti, si fa più presente: curve, spigoli smussati, aggetti fanno la loro comparsa nell’opera tarda dei due architetti, quasi a voler suggellare una maniera compositiva scultorea. Ciò è evidente ad esempio nell’edificio realizzato in via Verga 4 (1962-64), dove l’impianto ad L asseconda la giustapposizione di due volumi di diverse altezze, le cui facciate presentano una libertà compositiva inedita rispetto alla produzione precedente.
Progettisti autonomi e metodici, Asnago e Vender furono artefici di un linguaggio moderno e funzionale, matrice di un razionale ordine urbano; lontani da polemiche e clamori, essi si dedicarono con assiduità alla loro attività di progettisti, cercando, da costruttori, delle risposte che provenissero direttamente dalla professione dell’architetto.
C. Zucchi, F. Cadeo, M. Lattuada, Asnago e Vender, L’astrazione quotidiana, Architetture e progetti 1925-1970, Milano, edizioni Skira, 1999.
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