Chiara Gatti, curatrice della mostra di Giacometti al MAN di Nuoro, racconta l’uomo e artista in mostra alla GAM di Milano.
Tutta colpa di uno sguardo. Quando nel 1935 Alberto Giacometti (Borgonovo di Stampa, 1901 – Coira, 1966) ritornò al suo primitivo amore per le teste e i loro occhi profondi, per lo studio di un volto e dell’anima che in esso si nascondeva, l’amico e capogruppo (del Surrealismo) André Breton sbottò in un commento acido: «Una testa? Ma lo sanno tutti cos’è una testa!». Era la fine di una amicizia. E di una collaborazione nel segno del pensiero in libertà, del sogno e dell’inconscio creativo. Breton non poteva tollerare che Giacometti fosse tornato alla realtà. E Alberto capì che l’avventura surrealista non poteva saziare il suo bisogno d’esistenza, d’indagine sulla verità palpabile delle cose, sulla loro materia fragile, ragione stessa del dramma eterno dell’uomo. «Riprendere ogni cosa da capo, così come vedo le persone e le cose» ripeteva inesausto; «specialmente le persone e le teste, gli occhi all’orizzonte, il globo degli occhi, la partizione degli occhi» scriveva ossessivamente nelle sue pagine di diario, piene zeppe di dubbi. «Non capisco più nulla della vita, della morte, di nulla» cedeva, infine, sfiancato da un senso atroce di sconfitta.
È da una riflessione profonda su questo ritorno allo sguardo e alla realtà, che muovono le due mostre dedicate contemporaneamente – fra Milano e Nuoro – al grande artista svizzero del Novecento, interprete di un’inquietudine diffusa e di un comune desiderio di sopravvivenza alla volatilità delle apparenze, all’atroce consunzione del corpo. Sullo sfondo di una Parigi esistenzialista, che leggeva Sartre, Bataille o Camus e si interrogava sul valore della vita a cavallo fra le due guerre, le mostre allestite alla GAM di Milano e al Museo MAN di Nuoro sembrano completarsi a vicenda, approfondendo due aspetti paralleli nella ricerca di Giacometti.
Da un lato, l’evoluzione del suo sguardo, appunto, puntato sul mondo che gli frullava intorno, sui volti degli amici, della famiglia, di Diego, Lotar, Annette, Ottilia o sulle folle, le piazze gremite di figure silenziose, sugli uomini soli che «vedeva avanzare verso di lui alla cieca – ricordava Sartre – rotolando nei boulevard come le pietre di una valanga». Dall’altro lato, il suo sguardo diretto invece al passato, alle origini e a un universo antico di culture e forme primigenie che nutrirono la sua immaginazione (e i suoi occhi!) sin da bambino, sin da quando, affogato fra pile di libri nella biblioteca del padre pittore a Stampa, in Val Bregaglia, scoprì il fascino di civiltà dal respiro assoluto, capace di persistere nei secoli, immutabile.
La sua storia di uomo del Novecento, di artista contemporaneo, che ha attraversato le suggestioni del post-cubismo e la parentesi surrealista (ben documentata a Milano da una carrellata di esemplari celebri, come l’iconica Boule Supendue) sposa dunque la sua storia di uomo fuori della storia, sospeso nello spazio e nel tempo, in una prospettiva circolare. «Tutta l’arte del passato, di tutte le epoche, di tutte le civiltà, si erge davanti a me. Tutto si fa simultaneo, come se lo spazio avesse preso il posto del tempo» diceva per chiarire la sua idea di convivenza con una eredità millenaria, con forme d’arte fiorite nell’antico Egitto o nel mondo greco, fra i popoli italici e l’Africa nera, che a Nuoro prendono corpo in un gioco di accostamenti fra le famose figure allungate (le Femmes de Venise) e i bronzetti di origine etrusca, fra le pose solenni dei suoi personaggi inginocchiati e le statue votive della Costa d’Avorio, fra i suoi uomini in cammino e gli Dei egizi dal passo gradiente, simbolo per lui di un concetto puro di movimento, di un gesto potente e di un’energia ultraterrena che sognò, per tutta la vita, disperatamente di abbracciare.
“Alberto Giacometti a un passo dal tempo. Giacometti e l’arcaico”, Nuoro, MAN, fino al 25 gennaio 2015.
“Giacometti”, Milano, GAM, fino al 1 febbraio 2015.
Foto: Alberto Giacometti, Busto di Annette (detto “Venise”), 1962. Parigi, Fondazione Giacometti. Courtesy: Palazzo Reale.