Un teatro che non esiste più, quello dei mattatori. Degli Albertazzi, dei Bene, dei Gassman
“Andiamo a vedere Albertazzi, stasera?”. Non “Andiamo a teatro?”, nemmeno “Andiamo a vedere Memorie di Adriano”. No. Albertazzi. O Bene. O Gassman.
Ecco, un mattatore. La scena è sua, prima ancora che lo spettacolo cominci. Anzi, la scena è lui. Può esserci scritto qualunque titolo, qualunque autore, su quella locandina. Ma chi va, va per lui.
O almeno è stato così fino ad oggi.
Non per caso al momento della morte di Giorgio Albertazzi qualcuno ha voluto ricordarlo come L’ultimo imperatore. Perché forse, pur tenendo presente alcuni grandi interpreti di oggi, come può essere Toni Servillo (peraltro protagonista di questa bella intervista su Repubblica) il mattatore come figura storica se ne va con lui.
Proprio ora, in un’epoca in cui il protagonismo, in tutti gli ambiti della società, sembra vivere il suo momento di gloria, ora che, pur nell’apparente dissolvimento generale, l’importante è apparire, risaltare, metterci la faccia, proprio ora l’epoca dei grandi mattatori, quelli che ci portavano a teatro, sembra al crepuscolo. Forse perché siamo cambiati anche noi, il terreno all’interno del quale si formava l’ambiente pronto ad accogliere la figura del mattatore non è più lo stesso, perché il ricambio, persino in teatro, è molto più rapido, e il personaggio del mattatore si ribella a questa frenesia, egli vuole prendere tutta la scena, e decide lui quando venire giù. Una volta le dinastie dei mattatori si succedevano l’una all’altra in modo naturale, e a Tommaso Salvini e Adelaide Ristori succedevano Ermete Zacconi ed Eleonora Duse, e accanto a questi ultimi si formava un giovane Memo Benassi. E così via. Per chi ha vissuto la stagione dei Bene, dei Gassman, degli Albertazzi, la situazione oggi è forse un po’ confusa. “Ma chi sono questi?” ci si trova a commentare davanti alle locandine che annunciano le nuove produzioni.
Ma la mancanza di riferimenti così riconoscibili, definiti, deve per forza avere come conseguenza una disaffezione, per lo meno da parte di un certo pubblico, un allontanarsi, nel momento in cui si percepisce il venir meno di quelle calamite irresistibili che riempivano le platee? Forse no, forse è vero il contrario. Forse i mattatori se ne sono andati perché hanno compiuto la loro funzione. Non abbiamo più bisogno dei divi per amare il teatro. Essi, anche se forse ancora la maggior parte di noi non lo sente, hanno contribuito a creare le condizioni per lo svilupparsi di giovani artisti che possono essere grandi senza bisogno di avere il nome. Perché, sebbene questa possa apparire una vana speranza, la più importante lezione che i mattatori ci possono lasciare non è che per essere attori è necessario fare di sé stessi un mito, bensì che è la dedizione, l’amore, il piacere del proprio mestiere, ciò che fa un artista.
Questo può essere il compito della nuova generazione di teatranti, quello di rinunciare alla fama, alla foga di diventare i prossimi Carmelo Bene, Giorgio Albertazzi, Luca Ronconi, quello di non fare di sé una banda di tristi epigoni che cercano solo di perpetuare uno status quo, esaltando per essere esaltati, rendendo il teatro un mezzo per ottenere qualcosa che non ha alcunché a che vedere con esso. I giovani artisti della scena hanno l’occasione (sì, proprio in questo tempo in cui ci sentiamo tutti condannati all’impoverimento, alla meschinità, alla perdita di senso) di riportare la bellezza, semplice bellezza, nel teatro. Di più, il divertimento. Possiamo forse immaginare che quelle icone della nostra scena non si siano divertiti come matti, amando profondamente il proprio mestiere?
Non commettiamo l’errore di vedere in loro solo degli artisti di fama, dei nomi con le gambe che si muovono sul palcoscenico. Il nome siamo noi ad averlo dato loro, riempiendo le platee e le gallerie. Quello che ci hanno messo loro è la dedizione, il trasporto, il gioco. Impariamo questo, onoriamoli. Così che non ci si vergogni più di andare a teatro semplicemente per godere di una storia, così che gli artisti non si sentano più obbligati ad essere “moderni”, “diversi”, “innovatori”. Riconoscibili. Così che non siano le etichette, estetiche, politiche, a connotare il nostro lavoro, ma il piacere, che non ha bisogno di fama, di riconoscimenti personali, di divismo, di nomi, per trovare la propria ragion d’essere. Così che l’unico vero mattatore possa essere il teatro stesso.