Letti ieri, letti oggi (11): L’Avana per un infante defunto

In Letteratura, Weekend

Piena di nostalgia dopo un anno vissuto a Cuba durante il Periodo especial, la prima volta dell’autrice con ‘L’Avana per un infante defunto’ di Cabrera Infante. Passano 24 anni, cambia lo sguardo su Cuba e, più in generale, sulla vita e si riprende quel libro in mano

L’adolescenza di Guillermo Cabrera Infante comincia il giorno in cui con la famiglia si trasferisce dal paese in cui viveva al falansterio di Zulueta 408 all’Avana, e a quel passaggio dalla casa con animali e giardino al formicaio di cemento pieno di vita in cui abita con il fratello e i genitori in una sola stanza in cui “la brezza muoveva i teli colorati che nascondevano i focolari domestici” corrisponderà il cammino da bambino a ragazzo, alla cui iniziazione sentimentale è dedicato L’ Avana per un infante defunto: oltre cinquecento pagine in cui si svolge nel dettaglio la scoperta del sesso e dell’amore nella cornice di una Avana degli anni Quaranta e Cinquanta. Decennio che segna non solo il passaggio dal primo governo di Batista, finito nel 1944, al secondo, una dittatura che prese il potere nel 1952, ma anche dalla donna acqua e sapone e sessualmente sottomessa a quella disinibita, attiva negli approcci.

 

Dalla prima volta in cui ho letto il libro alla seconda, qualche giorno fa, sono passati ventiquattro anni che hanno cambiato il mio sguardo su Cuba e sull’Avana, oltre che sulla vita. Ero tornata da due settimane dalla capitale cubana dove nelle intenzioni avrei dovuto fermarmi un mese e invece ero rimasta un anno, il più duro del Período Especial, con i soldi previsti per un mese arrotondati da qualche negocio e con un visto che non avevo mai rinnovato. Povera in canna, dunque, ma era una tappa della vita in cui inconsciamente andavo in cerca di situazioni difficili, e la crudezza della vita venisse fuori senza veli.

Ero tornata mio malgrado ed ero piena di nostalgia quando mi era capitato tra le mani quell’autore che per i miei amici castristi era sinonimo di gusano e traditore, e lo avevo letto con una certa diffidenza benché, dopo quell’anno all’Avana, non fossi più la stessa che si indignava con chi azzardasse qualche critica a Fidel, il mio perfetto mondo ideologico si era parecchio ammaccato nel contatto con la realtà. Cambiata o meno, quell’anno a Cuba – iniziazione anche la mia benché non sentimentale ma iniziazione alla realtà, l’isola e la città viste da vicino senza le lenti deformanti del turista né del fan – quell’anno così forte e sorprendente era stato per molto tempo un ricordo vivo in una Milano in cui stentavo a riadattarmi. Sarà per questo che la prima lettura era stata facile e non mi aveva annoiato alcun passaggio nel racconto delle decine di abortite esperienze sessual-sentimentali, così continue e incalzanti da sovrapporsi ed elidersi, memoria ricostruita attraverso l’immaginazione, elaborazione nostalgica di un mondo anacronistico (la prima edizione del libro è del 1979, Cabrera Infante viveva in Europa dal 1965).

In quella prima lettura credo fosse stata  decisiva la cornice, il paesaggio che conoscevo bene di solares e guaguas, i cinema di periferia che la rivoluzione non aveva cambiato. Trovavo in quella descrizione l’incanto della città che avevo conosciuto, e uno stupore simile a quello dell’autore quando, spostandosi dalla campagna alla capitale si accorgeva che in quest’ultima erano diversi anche la povertà e i colori, e “il sole era meno accecante che al paese, dove rifrangeva la luce sulla creta bianca sulle strade, rendendole implacabili. All’Avana, invece, c’era l’asfalto, nera pavimentazione che assorbiva la luce del sole, il cui splendore era attenuato anche dall’ombra proiettata dalle case alte, mentre la brezza che soffiava dal mare, grazie alla Corrente del Golfo, rinfrescava l’estate tropicale e in certi mesi avrebbe anche creato l’illusione dell’inverno, impossibile al paese”.

Paesaggi e situazioni si erano così mescolati che quelle storie che, nella prima metà del libro, erano quasi pedantemente simili diventavano un tutt’uno con gli scenari e davano vita non solo all’anima dell’Avana ma a un’anima universale, in un racconto esistenziale dove l’arguzia è ancora calibrata, non è la prosa livida che che caratterizza le ultime opera di Cabrera: quando, esule e lontano da molto tempo, guardava all’isola come alla patria ingrata, governata da un satrapo. In questa prima parte emergono personaggi come la madre, bellezza comunista e liberale, vitale nonostante la povertà e il padre correttore di bozze della rivista comunista Hoy, i cui meriti non vennero mai riconosciuti. La location è prima l’appartamento di una stanza nel falansterio di Zulueta, con bagno in comune e una vivace e povera popolazione, dove l’adolescente e imbranatissimo Guillermo si allena masturbandosi e sognando rocambolesche avventure sessuali che per per qualche anno si limitano a stoccacciamenti e baci rubati, a escursioni voyeuristiche, a tentativi frustrati, a innamoramenti continui e insomma a tutto il bagaglio nella vita di qualunque adolescente con la variante che è ambientata all’Avana e dunque in un contesto straordinariamente colorito ed erotico, benché nel clima pudibondo degli anni Quaranta in cui si limonava con chiunque ma si arrivava vergini alle nozze.

Dunque, la prima parte. Preparazione alla vita sessuale nella cornice delle case di fortuna della periferia dell’Avana e poi nella zona più povera del commerciale Vedado. Se nella prima lettura avevo adorato ogni sfumatura, nella seconda ho faticato a non saltare qualche parte, a non vedere qualche caduta del racconto, mentre le descrizioni di masturbazioni e di ragazze di ogni tipo hanno richiesto un rodaggio più laborioso per trovare un unico registro corale. Il ricordo dell’Avana di ventiquattro anni fa (ci sono tornata altre volte, ma quell’anno è stato una storia a sé) è troppo lontano per riscattare la monotonia di alcune descrizioni. Però. Succede anche in questa seconda lettura che l’autore cresce e scopre il sesso quello vero. Ed eccoci alla seconda parte. La prima avventura reale, il primo amplesso, la prima volta insomma che va a letto con la sua Dea del desiderio, la intellettuale e focosissima Julieta che lo riceve a casa mentre il marito è al lavoro, è sorprendente per il modo in cui quella relazione, apoteosi di tutti i desideri maturati da bambino, diventa così bella e compiuta che sembra non sarebbe potuta esistere senza l’infinita preparazione di conquiste imperfette, di desideri insoddisfatti, di conquiste  a metà, di una esistenza adolescente trascorsa in attesa del desiderio condiviso nel suo più alto grado e perfezione, tanto più simile all’amore quanto più chi lo prova è così giovane da sovrapporre le due cose.

La relazione con Julieta che vuole “scopare” con Debussy in sottofondo e lo tradisce anche come amante, inaugura la fase degli amori adulti. E insieme a quelli maturano la passione politica e letteraria e l’amicizia con alcuni di coloro che saranno poi i compagni di ventura prima nell’appoggio alla rivoluzione e poi nell’abiura e nell’esilio come Carlos Franqui, un altro pezzo da Novanta nella lista nera degli anticastristi, uno dei molti intellettuali inizialmente rivoluzionari che ruppero con Castro dopo il 1961. Ma allora, ai tempi in cui è ambientato il libro, sia il giovane Guillermo sia Franqui sono comunisti e appassionati, idealisti e pieni di speranze. L’allure di personaggio letterario dà un certo fascino al giovane scrittore, compensa la sua poca grazia fisica – ha un viso lungo e poco attraente – e gli permette di praticare con successo le cacce sessuali a cui si dedica anche dopo sposato, alla ricerca ossessiva di donne che classifica per categorie come la Servetta, una delle sue preferite perché con lei non c’è bisogno di fare tante storie.

Sono gli anni Cinquanta, il comunismo non ha ancora cominciato a cavalcare i diritti delle donne, il rispetto è una conquista personale. E Cabrera è troppo onesto per alterare la realtà, nemmeno in questo meraviglioso affresco ricostruito a posteriori.

Immagine di copertina di Augustin de Montesquiou

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