Una controstoria dell’Avanguardia. Chi ne ha fatto parte solo per finire ad odiarla, e cosa ci insegna sulle nostre categorizzazioni da supermercato: forse che non funzionano?
La storia dell’arte è una staffetta sinora hegelianamente vinta dalla squadra giusta. Il caso Caravaggio è esemplare. Accusato in vita di falsare Giorgione, a pochi anni dalla morte fu predestinato da Giovan Pietro Bellori, la penna del barocco, a una damnatio memoriae durata più d’un secolo. Se i critici vincono i cento metri piani, gli artisti corrono maratone: un’infinità di pennelli, tra cui quelli di Salvator Rosa, Vermeer, Rembrandt, Courbet e Manet, hanno tramandato l’eredità di Caravaggio per secoli finché Roberto Longhi poté riabilitarne il nome. E Piranesi che veniva chiamato il Rembrandt delle rovine?
Per riconquistare la piena paternità della sua opera dovette aspettare d’esser cantato da Jorge Luis Borges. Centinaia d’artisti hanno atteso tempi lunghi e centinaia ancora aspettano, perché la storia dell’arte segue la mutevole storia dell’inconscio visivo: un secolo scambia un quadro di Vermeer per un Rubens e il secolo successivo li distanzia di otto sale museali.
Il Novecento dei traumi, il Novecento delle spiegazioni per cui l’arte è sempre didascalia della storia, ha chiuso il rubinetto a quel revisionismo che è sangue e carne della storia dell’arte. L’ha chiuso su un nome, “Avanguardia”, che, macchiata o illibata, resta sempre la bella Marianne col berretto frigio; soprattutto l’ha chiuso su una contrapposizione, quella con lo stupidamente chiamato ‘ritorno all’ordine’.
Nel freezer in cui è avvenuta questa grande esegesi socio-politica della storia dell’arte novecentesca, tra i quattro salti in padella e le bistecche della settimana prima, non c’era spazio per l’idea di contraddizione. Pertanto si è stabilita la scaletta definitiva su cui ancora oggi vengono educati gli occhietti dei giovani europei: “Montagna Sainte-Victoire 1900”, “Salon Fauve 1905”, “Demoiselles d’Avignon 1907”, macchine di Picabia, ready-made di Duchamp e così dicendo… Bene, chiamate un qualsiasi grande pittore dei giorni nostri e vi racconterà una storia diversa, una in cui Derain non vorrebbe essere ricordato per “Donna in camicia 1906”, una in cui davanti a un Max Ernst si ammira la texture e si schifa il surrealismo, una in cui Salvador Dalì non trova nemmeno posto e in cui il vorticismo inglese è più importante del futurismo italiano, e Malevič è un gran simpaticone, ma soprattutto una storia basata su un’unica, goduriosa, irrinunciabile parola d’ordine: tradire l’Avanguardia.
Chi sa indovinare il nome del pittore che ha dipinto questo quadro? E questo? Questo qui?
È Magritte! Non il piatto Magritte di pipa, case, monocoli e bombette che campeggia negli studi legali e ortodontici, ma il Magritte ribelle e trascurato, erotico e febbrile che espose nel 1948 alla Galerie du Faubourg per sconvolgere i surrealisti. Le pennellate grasse e veloci, che fino ad allora avevano innaffiato solo alcuni ritratti dechirichiani, si sparsero sulle tele che Magritte battezzò Périod Vache.
Il periodo vacca si apre con un cacciatore dalla pelle color bottiglia, la cui mano sinistra manca del rispettivo arto e il cui naso si protubera nella canna di un fucile simile a quello di Taddeo, il cacciatore di Bugs Bunny e Daffy Duck. Continua con Jeanne-Marie, un buffo personaggio con il naso a pagnotta, gamba di legno e zoccolo alla Van Gogh, che cammina pensieroso, seguito dalla sua gallina, mentre Magritte crea un cielo di madras, il tessuto a righe e quadri dal filato leggero. Queste pennellate che i pittori inglesi definiscono loose, sfuse, hanno formato artisti quali René Daniëls, Martin Kippenbeger oltre che metà neoespressionismo tedesco.
E questo dipinto di chi è? Questo?
E’ André Derain. Già nei primi anni Dieci il maestro di Chatou non ne può più d’accostare il blu con il verde e l’arancione, torna al Louvre, guarda al tanto amato Rinascimento e così per quarant’anni. Sono quadri di grande maestria compositiva, che spianano la strada a Balthus e a molta pittura inglese d’epoca modernista e contemporanea, un nome tra tutti: Merlin James.
Se per tutti gli anni Dieci Picabia aveva tratto spunto dall’amico fraterno Duchamp ritrovando e rappresentando nell’estetica della macchina industriale la fisionomia di donne dalla sessualità tossica, negli anni Venti lasciò sia Dada che Duchamp nel loro brodo e implorò perdono alla Venere di Botticelli.
Iniziò a dipingere un ciclo di tele intitolato Transparences su cui ricalcava le linee di contorno dei più celebri dipinti di Guido Reni, Botticelli, Dürer, Michelangelo e le sovrapponeva a rappresentazioni pittoriche compiute. Nessuno prima d’allora aveva annullato a tal punto il confine tra disegno e pittura; senza le ultime stagioni di Picabia non avremmo né David Salle né Sigmar Polke.
Non avremmo nemmeno John Currin, sebbene, questo, per un altro motivo. Infatti, verso la fine dei suoi anni, Picabia, grande latin lover, s’appassionò di girlie magazines e sfruttò le curve delle pin-up per una rielaborazione della donna rinascimentale in cui le girls finivano all’interno di composizioni quattrocentesche. I corpi femminili patinati e gonfi si mantennero incredibilmente lontani dal Pop; sono gli stessi corpi che – con l’aggiunta di un po’ di botox – caratterizzano l’arte di Currin.
Questi sono solo tre esempi, ma la schiera di artisti pentiti delle rigidità avanguardistiche è lunga e non riguarda solo le avanguardie storiche. Memorabile il momento in cui negli anni Quaranta Jean Hélion tradì l’astrazione per dipingere zucche. Potenti sconvolgimenti portò la celebre mostra del 1970 dove Philip Guston rigettò l’espressionismo astratto e cominciò a dipingere ciliegie e mostri incappucciati.
La domanda che dà origine e fondamento a buona parte dell’arte novecentesca può essere rintracciata proprio nel bivio aperto dai due fratelli dada: seguire il fu pittore Duchamp, emblema della coerenza, o rincorrere il pictor semper Picabia, il traditore, e i suoi soci?
Il già citato Merlin James, persona elegantissima, pacata e deliziosamente subdola, scrive a proposito di Derain: «Le grandi retrospettive di Derain in anni recenti hanno fallito nel presentare la vastità della sua opera e i dipinti fauve rimangono i favoriti. Forse è essenziale all’opera di Derain conquistarsi il gusto di chi la ama, farsi apprezzare solo da coloro che hanno già trovato in solitudine la propria strada verso un realismo disingannato, ma non per questo disilluso». Sicuramente è essenziale all’artista d’oggi conquistarsi il gusto di amare Derain.