Più Lebowski che Fargo, il nuovo film dei geniali fratelli è un inno all’unica fede che praticano: il cinema. Grazie al quale si fanno beffe di tutte le altre
Wikipedia dice che l’idea di Hail Caesar! è nata nel 2004, quando i fratelli Coen hanno annunciato di voler raccontare la storia di un gruppo di attori degli anni venti che mettono in scena un’opera teatrale ambientata nell’Antica Roma. Invece è più probabile che la storia sia cominciata molti, molti anni prima, nel garage di un sobborgo di Minneapolis, in Minnesota, dove Joel aveva appena comprato una super8 grazie ai soldi accumulati tosando l’erba dei vicini. Col fratello Ethan cominciano a rimettere in scena i film che vedono in televisione. Perché, anche se allevati in una famiglia ebrea osservante (e in un loro film, A Serious Man, l’hanno raccontato), la loro vera religione era, è, e sempre sarà il cinema.
Hail Ceasar! è il film di questi due bambini, Joel 61 anni e Ethan, 58, che ancora ricordano, immacolata e scintillante, quella Terra Promessa che fu Hollywood. Siamo nel 1951 e Eddie Mannix (Josh Brolin) – per vostra informazione un uomo realmente esistito, come da classica lezione dei Coen: non inventare mai un personaggio, ne esistono già abbastanza in circolazione – è un uomo perbene, che si confessa ogni ventiquattro ore, si vergogna di dire alla moglie di aver fumato ben due sigarette e lavora per la Capitol Pictures (vedi Barton Fink), mastodontica casa di produzione che per tenere stretti a sé gli spettatori deve produrre film sempre più disperatamente sensazionali. E soprattutto mantenere viva e alta l’immagine.
Qui entra in gioco il “fixer” Mannix: corrompe poliziotti che hanno visto troppo a casa di qualche starlette svampita; copre la gravidanza di padre ignoto della star del cinema acquatico DeAnna Moran, una Scarlett Johansson stile Esther Williams, che può lasciare a briglie sciolte un brutale accento newyorchese; convince un furibondo regista di raffinate commedie, Ralph Fiennes, a usare Hoby Doyle (Alden Ehrenreich, perfetto), un attore western mago del lazo ma con un accento da ciociaro texano; spegne all’origine alcuni fondatissimi sospetti sull’omosessualità di Baird Whitlock (George Clooney), star del Kolossal biblico Hail Ceasar! (con colpo da maestro George ironizza sulla propria vociferata omosessualità?); insomma, sostiene sulle proprie spalle l’enorme peso di un mondo che ogni giorno deraglia con classe. Mannix crede in ciò che è puro, ma soprattutto non vuole grane e intralci alla produzione, e arriva perfino a convocare un prete cristiano, un rabbi, un prete ortodosso e uno protestante per assicurarsi che i contenuti di Hail Caesar! non turbino la sensibilità dei fedeli: così l’interrogativo presta ovviamente il fianco a una discussione esilarante sulle rispettive credenze, fino a quando il rabbino esclama “questi sono mezzi matti”, parlando dei preti cristiani.
E nella trama c’è anche un altro delirante pretesto-divagazione: nel bel mezzo delle riprese del suo film in costume, Baird Whitlock viene narcotizzato e e condotto in una villa a Malibu dove, in gonnellino da legionario romano, trascorre un periodo di cattività in attesa del riscatto, discorrendo di capitalismo con un gruppo di sceneggiatori comunisti e col celebre filosofo della controcultura Herbert Marcuse, a cui – per spiegare la propria visione del sistema capitalista – racconta di una sera in cui ha depilato la schiena di un collega attore.
È abbastanza per capire che siamo in un film dei Coen? Il tipo di esperienza si avvicina più al Grande Lebowski che a Fargo, e si ride senza freni, interrogandosi al tempo stesso sui fondamentali quesiti spirituali, al ritmo implacabile delle falcate di Mannix che percorre da mattina a notte fonda gli studios della Capitol: e intanto si attraversano tanti generi “storici”, dal peplum al melò, dal musical al balletto acquatico, passando per il western. Insomma Hail Caesar! è un clamoroso all you can eat cinematografico, ma à la Coen. Quindi con occasionali appesantimenti filosofici, digressioni sociologiche, antimaccartismo farlocco e buchi di trama. Proprio sulla rigidità della struttura di ogni genere i Coen costruiscono idiosincrasie esilaranti e personalità incontenibili. Si veda, su tutti, il dialogo tra Ralph Fiennes, impegnato a correggergli l’impossibile pronuncia, e il texano ciociaro. La loro Hollywood è bianca e maschia – e pure un po’ gay – per cui le donne sono relegate a perpetue del culto: tutte sobrie ed efficienti, come Natalie, la segretaria di Mannix, o le gemelle giornaliste Thacker (Tilda Swinton 1 e 2) o C.C. Calhoun, la montatrice interpretata da Frances McDormand in cinque minuti da oscar. Una sola comparsa di colore, ma proprio per questo, in evidenza.
Parsimoniosi come sempre, i fratelli Coen utilizzano gli stessi elementi che usano da trent’anni in ogni film: l’orologio minaccioso (vedi Hudsucker Proxy) che appare al polso di Mannix, con inquadrature didascaliche tipiche da film anni 50; il cagnolino insopportabile, il rapimento, la valigetta di soldi (ma perché ogni volta si pensa che sia importante? Perché si casca nel tranello dell’avarizia? È un film dei Coen, lo sappiamo dove finisce la valigetta!). E se qualcuno critica il sistema o nomina invano il nome di Nick Schenck (padrone della Capitol Pictures) ci pensa Mannix a prenderlo a schiaffi, mettendo in chiaro da che parte stanno gli uomini per bene: dalla parte della produzione, dagli attrezzisti, dei montatori, degli sceneggiatori, degli elettricisti, dei costumisti, devoti al monoteismo paternalista dello studios che nel film riverbera nella scelta del kolossal su Gesù. Mannix è come Cristo che sta tra i peccatori, mentre il lontano Schenck compare solo come lontana, indistinguibile voce al telefono, un Geova distante e perentorio.
George Clooney dice d’aver ricevuto una telefonata (le storie di Hollywood cominciano sempre con una telefonata) in cui i Coen gli chiedevano se voleva fare il film con loro, e di aver detto: “certo, che fai, rinunci a un film dei Coen?” Gli hanno chiesto se voleva vedere la sceneggiatura e lui ha detto qualcosa come: “ok, se è proprio necessario, ma lo faccio, vero?” Stesso discorso per Channing Tatum (in stile Gene Kelly, ma con una segreta identità comunista), che ha passato tre mesi a studiare tip tap giorno e notte, pur avendo, già all’audizione, fatto credere di saperlo ballare benissimo, perché “non potevo perdermi un film dei Coen”. Del resto, non è che neanche loro sapessero davvero come girare i diversi generi: sul copione, quella sequenza del musical di marinai, con coreografia impeccabile in divisa bianca, claquette su bancone e tavoli, era indicata con un generico: “Danzano”.
Certo, chi rinuncia a un film con i Coen? Piacciono a tutti i Coen? Forse perché ci raccontano come la patina technicolor convive con il degrado morale? Perché ci mostrano come quell’innocenza sia sostenuta proprio da una giungla di debosciati, e che non c’è nulla di sbagliato in ciò? Per la magnificenza della settima arte che si nutre dell’insopportabile narcisismo dei suoi artefici? O per il fatto che, contro ogni interesse, pur avanzando noi in un’epoca di sincretismo religioso piuttosto distratto, i fratelli Coen, insieme a Eddie Mannix, rimangono uomini di vera fede? Would that it were so simple.