Fino al 20 dicembre è possibile visitare alla Prometeo Gallery la mostra “Somnyama Ngonyama”, a cura di Francesca de’ Medici, dell’artista sudafricana Zanele Muholi, attivista visuale impegnata nella documentazione delle vite delle comunità nere lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer e intersessuali del Sudafrica. L’ha visitata per Cultweek Teresa Antignani, a sua volta artista, ricercatrice e attivista, che inaugura con questo articolo la sua collaborazione dedicata agli “artivismi”, termine potente e ambiguo da codificare e analizzare con attenzione e lucidità, per stimolare il dibattito sul suo vero significato e, più in generale, sul significato dell’attivismo legato all’arte e sulle sue reali potenzialità di incursione sociale.
Il 27 settembre scorso la Prometeo Gallery Ida Pisani di Milano ha inaugurato la mostra personale, a cura di Francesca de’ Medici, dedicata a Zanele Muholi, definita una delle più potenti attiviste visuali presenti sulla scena dell’arte contemporanea internazionale. L’esposizione è focalizzata sull’ormai celebre e decennale progetto iniziato nel 2012 dal titolo Somnyama Ngonyama, in cui Muholi smette di documentare le storie delle comunità nere LGBTQIA+ del Sudafrica per puntare l’obiettivo fotografico su di sé, dando vita a una serie di autoritratti rigorosamente in bianco e nero in cui fierezza, orgoglio nero e rivendicazione si mescolano al mondo del teatro e della fotografia di moda. Muholi pone se stessa al centro della sua opera fotografica per presentarci il proprio volto in continua relazione con oggetti più o meno esplicitamente connessi alle vicissitudini politiche sudafricane e che, dal punto di vista formale, favoriscono una dimensione quasi tattile delle opere in cui texture, pieghe, tessuti e ornamenti scandiscono il ritmo dei suoi copricapo fatti di spine di grano, coperte, oggetti di design, crocifissi.
Negli sfondi di questi ritratti non v’è lo stridore violento e graffiante del trauma collettivo, della segregazione razziale vissuta o degli stupri correttivi, contro cui Muholi stessa ha lottato, ma la morbidezza di un grigiore opaco decontestualizzante. La neutralità di questi sfondi vellutati sposta il nostro occhio verso una nuova determinazione del soggetto nello sguardo, nella sua blackness esasperata, a tratti caliginosa, pigmento identificatore accostato al desiderio mosso da una impossibilità di definizione. Questo continuo indagarsi nell’autoritratto ha a che fare, più che con la sommossa e l’attivismo tout court, con “un viaggio di autodefinizione intrapreso ripensando la cultura del selfie, dell’auto-rappresentazione e dell’auto-espressione.”
In Somnyama Ngonyama troviamo una Muholi diversa da Mo(u)rning, operazione collettiva che documentava la lotta a partire da una politica di auto-rappresentazione, intesa come questione centrale delle vertenze queer che contestano un archivio coloniale infarcito di narrazioni orali, scritte e visive dei corpi neri/africani come “grotteschi, incivili e crudamente sessuali”. Con Somnyama Ngonyama Muholi passa a un lavoro ibrido che rende visibile un ripiegamento verso l’interno, in cui indaga la propria immagine in relazione a stereotipi rappresentativi e a certa ritrattistica fotografica.
Impossibile per l’osservatore non notare la distanza di questa serie dall’artivismo di denuncia radicale presente nei nomi e nei luoghi degli oltre 700 ritratti di Faces and Phases in cui Muholi lottando al fianco alla sua comunità ci ha mostrato il reale potenziale performativo, collettivo e disturbante della sua opera. Riprendendo il potere talismanico dell’archivio, Faces and Phases costruisce un diverso regime di visibilità che si oppone alla ipervisibilizzazione delle donne lesbiche come vittime di crimini eccezionali, per l’unico modo per una donna lesbica di entrare nell’arena pubblica è attraverso spettacoli di brutalizzazione, come raccontato nei media e nelle denunce delle organizzazioni “in buona fede” di Cape Town.
Quando la de’ Medici ci parla di “approccio pacatamente sovversivo” ci dice forse questo: Muholi non ci sta parlando più di rivolta, di denuncia esplicita di chi ha perpetuato violenza o delle ferite ancora sanguinanti dell’apartheid. Nelle opere di questa serie è presente una forza che ha il sapore aspro di una inflessione verso se stessi, la stessa che si esercita quando l’impossibilità a scalfire la linea della storia ci costringe a ripensare la nostra immagine, le nostre strategie di stare al mondo. E così fa Muholi: “le immagini culturalmente dominanti delle donne nere iniziano a infiltrarsi nella mia anima e fungono da costante promemoria del fatto che tali immagini costituiscono ancora il modo in cui le donne nere sono percepite qui e ora. Uno dei modi in cui affronto questo io/altro esotizzato è quello di esorcizzare quelle immagini attraverso la mia fotografia.”
Dall’intimità intesa come spazio di trasgressione in Beloved, dal dolore e dalla dolcezza del tentativo di normalizzare i corpi delle comunità black queer vittime di violenza e abuso, Muholi ci coinvolge questa volta in un rituale trasformativo personale e universale al contempo. La “leonessa nera” diventa icona, rendendoci partecipi di un processo di continuo disvelamento e mascheramento di sé, spinto dalla necessità di esprimere la propria determinazione a esistere, prima e soprattutto, in quanto essere umano. E solo in un secondo momento in quanto soggetto minoritario che, senza paura di parlare, sembra rivolgersi alle realtà marginali di lotta a cui, con le parole del poeta Audre Lorde, ricorda tragicamente che “non siamo mai stati destinati a sopravvivere”.
Zanele Muholi, Somnyama Ngonyama, a cura di Francesca de’ Medici, Prometeo Gallery Ida Pisani, Milano, fino al 20 dicembre 2023
Tutte le immagini: Courtesy the Artist and Prometeo Gallery Ida Pisani, Milan-Lucca. Ph. Filippo Ferrarese