Una lettura scenica d’effetto, dove tutti gli attori interpretano tutti i personaggi e danno vita a un racconto corale da cui emerge con forza la solitudine di Jean-Claude Romand
La verità, è un’agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte. Bisogna scegliere, morire o mentire.
Così scriveva Céline in Viaggio al termine della notte, pubblicato nel 1932 e ancora lontano dalla tragedia che si compì il 9 gennaio 1993 in un paesino della Francia orientale: Prévessin-Moëns.
Quel giorno Jean-Claude Romand uccise la moglie, i due figli di 7 e 5 anni e i suoi genitori, cercò perfino di strangolare la sua amante e infine decise di suicidarsi, dando fuoco alla propria abitazione: soccorso dai vigili del fuoco, ebbe salva la vita.
Jean-Claude, tra morire e mentire, aveva scelto la seconda opzione e, fin dai tempi dell’università, aveva cominciato a raccontare una serie di bugie che gli avevano permesso di crearsi una vita completamente inventata.
Così era cominciata la sua lenta e inesorabile agonia, la tortura quotidiana che l’avrebbe condotto all’efferato gesto di uccidere le persone che gli erano più vicine e alle quali non avrebbe sopportato di raccontare la verità.
Invisibile Kollettivo, nella lettura scenica ospitata al Teatro Elfo Puccini (fino al 29 aprile), indaga a ritroso nella vita di Jean-Claude per trovare l’inizio della menzogna che aveva dominato la sua vita adulta: protagonista indiscusso della scena è il libro di Emmanuel Carrère L’avversario, non solo perché è il “copione” su cui si basano gli attori, ma anche perché ogni personaggio sul palcoscenico ne tiene in mano una copia.
Il libro è difficilmente definibile perché racconta la storia di Jean-Claude attraverso l’avvicinamento di Carrère alla sua vicenda: lo scrittore cercò infatti di contattarlo in carcere e cominciò con lui una corrispondenza epistolare che durò anche dopo la condanna di Jean-Claude all’ergastolo.
La confusione della ricerca, la fretta di voler capire, la disperazione di non riuscirci sono ben resi dagli attori che alternano ruoli e interpretazioni: Nicola Bortolotti, Lorenzo Fontana, Alessandro Mor, Elena Russo Arman e Franca Penone danno vita a tutti i protagonisti della vicenda attraverso salti temporali che indagano nell’infanzia di Jean-Claude e poi nel suo matrimonio, senza soluzione di continuità.
Una grande prova scenica che mette in luce una vita intera in poco più di un’ora, avvicinandoci il mostro e permettendoci di (provare a) capire l’uomo.
Attraverso la testimonianza del migliore amico di Jean-Claude, Bernard, che aveva studiato con lui all’università, emerge il ritratto di un uomo mite, attento alle esigenze della famiglia, amorevole con la moglie e con i figli, impegnato professionalmente nonché medico influente nel suo campo: per tutti, infatti, Jean-Claude lavorava come ricercatore all’OMS di Ginevra.
La sua posizione gli permetteva di ottenere l’accesso a investimenti vantaggiosi, con una percentuale di rendimento fino al 7%: per questo motivo, i suoceri e poi anche la sua amante gli affidarono ingenti somme di denaro perché le investisse in Svizzera, somme che non sono mai state restituite ai proprietari.
Proprio quando cominciarono le prime domande, il suocero cadde dalle scale e morì; ai primi segnali di scetticismo dell’amante, però, Jean-Claude capisce che il tempo a disposizione della sua menzogna sta per scadere e decide di agire, strenuamente schiavo del suo segreto.
Carrère spiega così il suo interesse per la storia di Jean-Claude: “Io sono entrato in contatto con lui, ho assistito al suo processo, e ho tentato di raccontare con precisione, giorno dopo giorno, questa vita di solitudine, d’impostura e d’assenza.
Di immaginare cosa gli passava per la testa durante le lunghe ore vuote, senza progetti né testimoni, che avrebbe dovuto trascorrere al lavoro e invece passava nei parcheggi autostradali o nei boschi del Jura. Di capire che cosa, in un’esperienza umana tanto estrema, mi ha toccato così da vicino.
E tocca, credo, ciascuno di noi”. Durante lo spettacolo, infatti, quello che davvero colpisce lo spettatore, al di là della violenza e della ferocia con cui Jean-Claude uccide i suoi cari, alla quale siamo tutti preparati prima ancora di entrare in sala perché conosciamo la vicenda, è il lunghissimo lasso di tempo (18 anni) in cui nessuno intuisce la bugia.
Non la moglie, alla quale già prima di sposarsi Jean-Claude aveva raccontato di avere un tumore, per convincerla a non lasciarlo; non il migliore amico, con cui ha studiato e che per primo avrebbe dovuto accorgersi che il suo nome non compariva nei risultati degli esami di Medicina; non i genitori, che gli avevano trasmesso l’importanza dell’onestà e che non avevano mai provato a telefonargli in ufficio, a Ginevra; non l’amante, con cui viaggiava per il mondo, che non l’aveva mai visto parlare con altri medici.
Nessuno aveva mai percepito la sua infinita solitudine, nessuno si era mai accorto che la sua menzogna non nascondeva niente, letteralmente. Jean-Claude non aveva semplicemente mentito sulla laurea, sulla professione, sulla salute; non aveva nascosto un’altra verità.
Jean-Claude non aveva proprio una vita, si era semplicemente fabbricato una quotidianità sostenibile, un argine per un’agonia che lentamente avrebbe ucciso la sua umanità. “Bisogna scegliere, morire o mentire”: il finto medico, tra le due opzioni, aveva scelto di essere l’avversario di se stesso, distruggendo così la propria vita.
Perché nessuno scoprisse l’enorme menzogna era necessario che tutti morissero.
L’avversario, al teatro dell’Elfo fino al 29 aprile