Percussionista e compositore, Elia Moretti è l’autore delle musiche di “Baal”, opera giovanile di Brecht in scena al Franco Parenti con la regia di Giuseppe Isgrò. Col musicista parliamo di questo suo impegno e delle sue molteplici incursioni nel free jazz, nell’elettronica e… nella cultura moldava
Al Teatro Franco Parenti, fino al 4 dicembre, è in scena Baal, primo testo di Bertolt Brecht, esempio di perfetta sintesi tra teatro e musica, voce, gesto e suono. L’artista Baal ne è protagonista e motore, è star, complice di un divismo violento, conflittuale nei confronti della società. La sua messa in scena, diretta da Giuseppe Isgrò, trova nella musica l’espressione più drammatica, che accompagna fedelmente l’azione, diventandone trama. È Elia Moretti a comporre in questo caso.
Elia è un orso gentile che abita in Repubblica Ceca, che suona le percussioni, suona free jazz, e suonava la grancassa nella banda della provincia pavese in cui è cresciuto. L’ho incontrato a teatro e gli ho chiesto di raccontarmi la sua storia e quella dello spettacolo e delle sue musiche. Elia sa tanto, ha studiato e conosce, prima di tutto, quello che fa. Vive a Malovice, in Boemia del sud, e lavora con la compagnia teatrale Divadlo Continuo. È un concentrato di idee sul teatro post-drammatico, il folklore, le origini della musica jazz. Ed è stato per Baal un compositore attento, innamorato del lavoro a cui si è dedicato.
Prima di arrivare a Baal quali sono stati i tuoi studi?
Ho studiato percussioni jazz al Conservatorio di Piacenza, e parallelamente scienze sociali all’Università di Pavia. Durante l’adolescenza avevo incontrato dei maestri importanti, come Umberto Petrin, Gianni Mimmo, Nicola Arata, Han Bennink, William Parker, che mi hanno fatto scoprire la musica improvvisata, il free jazz, e di come in un contesto storico quella musica fosse il linguaggio, l’espressione attraverso cui gli afroamericani lottavano per il rispetto dei loro diritti civili e sociali. La componente sociale nell’arte è sempre stata centrale. Non sempre però nella musica questo è apparso evidente, ma per me il passo è stato breve: il senso della musica e dell’arte sta nella vita delle persone e nella società.
Come nasce la tua attività di compositore?
La scrittura è importante per tutti i musicisti. Il polistrumentismo, un buon rapporto con la scrittura, l’arrangiamento, l’orchestrazione, assieme all’organizzazione del pensiero credo siano le cose essenziali.
Mi ricordo un avvenimento di molti anni fa: era il 2008 o il 2009, incontrai Andrew Cyrille (percussionista newyorkese, ndr) a un festival jazz in Austria, a Saalfelden, iniziammo a chiacchierare, mi stava raccontando della sua attività pedagogica, e mi ricordo che lui insistette: «mi raccomando, scrivi, anche poco, semplicemente, ma mantieni un’attività di questo tipo», e facendolo mi sono reso conto di quanto fosse importante.
Come è stato il tuo rapporto con Brecht e la composizione delle musiche?
Le musiche per lo spettacolo le ho scritte in relazione al testo, agli attori, alle persone con cui ho lavorato, e in relazione ai riferimenti, anche extra-brechtiani (la new wave, il punk, il free jazz), e a tutta la musica che Giuseppe mi ha fatto ascoltare. In fase di rifinitura ho allineato tutto con grande rispetto nei confronti di Brecht: Brecht è un gigante, un eroe. Io e Giuseppe abbiamo lavorato all’ibridazione dei linguaggi in scena, nell’azione, non a tavolino. Le ragioni profonde dell’esistenza dell’arte hanno a che fare con la politica, o più precisamente con il potere. Questo non implica solamente una presa di posizione dell’artista, ma anche la continua verifica della sua azione. Viviamo in una società dal linguaggio svilito e il teatro ha il potere di correggerlo. Brecht in particolare mi ha suggerito una condotta che mi faccia andare oltre, che possa affrancarmi da aspirazioni mediocri.
Qual è stato il percorso di studio sullo spettacolo e sulla musica di Baal?
Il lavoro su Baal deriva da un progetto performativo che si chiama Cantieri Bavaresi. Io ho conosciuto Giuseppe (Isgrò, il regista, ndr) al Teatro della Contraddizione, perché entrambi partecipavamo al loro festival ExPolis, dove io portavo un lavoro con la danzatrice Giselda Ranieri. Il focus della mia ricerca degli ultimi anni era proprio su come far dialogare due linguaggi diversi: suono e movimento (anche la compagnia con cui lavoro oggi in Repubblica Ceca è una compagnia di teatro fisico). Dunque in quel momento ho conosciuto Giuseppe, con cui iniziammo a lavorare sul progetto dei Cantieri Bavaresi, riprendendo l’immaginario di autori come Fassbinder, Herzog, Achternbusch e Brecht. È stato in questa fase che Giuseppe ha avuto l’illuminazione di dedicarsi a Baal, a cui stava pensando da molti anni. I Cantieri Bavaresi sono perciò il punto di partenza del lavoro su Baal, che è un lavoro che mischia i linguaggi, il movimento, gli oggetti, i suoni, la musica. Il mio è un approccio non narrativo, post-drammatico, che ho cercato di applicare alla drammaturgia sonora di Baal, al vocabolario di suoni che uso nello spettacolo.
Nella tua produzione ti sei molto avvicinato anche al folklore…
Sì, il folklore in sé è una conoscenza antica delle comunità rurali. Durante la mia ricerca ho trovato questa come definizione che può convincermi. In etnomusicologia, si studia come la musica faccia parte della vita delle persone e ne celebri i riti di passaggio. Quello che è complicato nell’approccio al folklore è che ci sono dei simboli molto chiari che appartengono a una tradizione e che vengono risignificati nel corso del tempo. Io ho analizzato il folklore della regione della Moravia sud orientale (sud est della Repubblica Ceca), che è una regione di confine, un incrocio di melting pot e multiculturalità (concetto molto jazz!), e poi ho preso quei simboli e li ho rielaborati, risignificati, anche con delle tecniche di composizione contemporanea che non avevano niente a che fare con quella musica folk: l’ho chiamato folklore immaginario. Il suono come segno è un elemento chiave della composizione: nello spettacolo ho applicato questo pensiero impiegando i suoni in modo che acquisissero un significato all’interno della drammaturgia dello spettacolo.
Qual è il panorama musicale e culturale della regione in cui lavori e vivi?
C’è un’area, che si chiama Visegrád, che comprende Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, e che si potrebbe allargare anche alle repubbliche baltiche, in cui c’è un grande fermento culturale, una grande freschezza. La generazione dei direttori dei festival, dei curatori dei musei e delle gallerie, dei registi è quella dei trentenni. Nel 1989, con la caduta del muro di Berlino e la fine del blocco sovietico, c’è stata una cesura radicale per questa parte d’Europa. Gli anni novanta sono stati un decennio di stordimento, come un lungo rave. Solo poco dopo è arrivata la crisi, che non ha nemmeno lasciato il tempo a un capitalismo finanziario di svilupparsi al punto di influenzare o determinare delle scelte artistiche, come è successo invece in Europa occidentale. Allo stesso tempo, la generazione cresciuta durante gli anni novanta è ora quella che fa, che decide: perciò sono rimasto colpito da quella scena, non soltanto perché fosse prolifica, per le idee nuove, per la grande attività, ma anche per le capacità e le opportunità organizzative dell’arte in generale. Il teatro e la danza soprattutto sono molto forti adesso, li si può paragonare per esempio a quelli della Scandinavia. C’è tanto interesse, le persone partecipano, c’è pubblico. La generazione di cui sto parlando è la mia generazione, per questo mi sento di aderire a questa dimensione. Ci sono centri culturali che aprono. In questi anni ho visto teatri rinnovarsi, ricostruirsi, allargarsi, centri nuovi ricostruiti all’interno di stazioni dei treni, sinagoghe…
Plum Yard, che è il centro dove abito e lavoro con la compagnia Continuo, è uno di questi. Infatti cerchiamo di essere uno stimolo abbastanza forte da attivare processi che permettano alla società di trovare collegamenti culturali e definirsi in relazione a noi. Vorremmo essere un catalizzatore culturale di eventi sociali.
Tu hai avuto una lunga relazione con la periferia, sia in Italia sia a Malovice. Qual è il tuo approccio e quello della compagnia Divadlo Continuo a questa realtà e ai suoi stili di vita?
Vivo con la compagnia nella Boemia del sud, una regione di itticultori e taglialegna, di foreste al confine con la Germania e l’Austria. La periferia può servire per costruire una propria indipendenza, anche se la compagnia riceve fondi dallo Stato: stare in periferia non è limitante, ma è un valore aggiunto secondo me. Questa condizione permette di partecipare all’organizzazione sociale e, oltre a una percezione diversa della cultura, offre un modello alternativo di democrazia. Un’analisi dell’arte deve per forza confrontarsi con la comunità e la società, ma anche con il potere e la volontà. Abitando la periferia, ho un approccio eterodosso al fallimento, affronto la caduta come risorsa.
Elia Moretti nel 2016 ha pubblicato l’album Oy Urchins con il trio di Milano Oyster Black Box: https: //floatingforestrec.bandcamp.com/album/oy-urchins.
Con il trombettista Mario Mariotti ha inciso Otto Composizioni Istantanee: https://asimplelunch.bandcamp.com/album/otto-composizioni-istantanee. Collabora con Stefano De Ponti in un progetto di musica elettroacustica: http://depontimoretti.tumblr.com.