Quattro concerti solo a Milano, l’irresistibile duo del pop italico ha fatto ancora una volta il pieno. Nostalgia, revival? O c’è dell’altro? Fenomenologia di un evento
Dovevano essere tre date, dal 23 al 25 febbraio al Mediolanum Forum di Assago, sono già diventate quattro, si replica l’8 aprile. Insomma il sold out, anche a Milano.
Stiamo parlando di Claudio Baglioni e Gianni Morandi che hanno unito le forze per il tour Capitani coraggiosi, partito con obiettivi tranquilli rispetto ai loro standard faraonici (all’inizio, lo scorso anno, erano in programma soltanto dieci concerti al Foro Italico di Roma), cresciuto via via nelle date e diventato marcia trionfale anche televisiva (due passaggi con buoni ascolti su RaiUno, giugno e ottobre 2015) e oggetto sonoro plurimo: un doppio cd con 36 canzoni che è secondo nella classifica Fimi, dietro Salmo e davanti agli Stadio e ai Modà, un triplo cd con aggiunta di dvd, un’edizione in vinile con 5 lp.
Sul palco poi Baglioni e Morandi, che insieme fanno 135 anni e hanno oltre 100 milioni di dischi venduti alle spalle, reggono la scena per tre ore, con una scaletta imponente di 50 canzoni. Quasi tutte classici o quasi, quasi tutte pietre miliari della loro lunga carriera tirate a lustro per l’occasione. Qualunque cosa si pensi del pop, è un evento. Che per di più mette fuori gioco le categorie classiche della “nostalgia” e del “revival”. Un evento musicale, certo, ma anche la dimostrazione di una capacità tutta contemporanea di interpretare il mestiere. Vediamo un po’.
Two is better than one. La “politica delle alleanze” non l’hanno inventata loro, neanche in musica, ma certo l’hanno messa in pratica con sagacia. Soprattutto Morandi, che questa capacità estroversa di tessere legami porta in dote al più ombroso Baglioni. I precedenti? La vittoria a Sanremo nel 1987 con Ruggeri e Tozzi, lo splendido disco Dalla/Morandi del 1988 (chi ricorda soltanto gli hit del cantante ragazzino negli anni ’60, ascolti Che cosa resterà di me, toccante ritratto in musica confezionato da Franco Battiato per il “figlio di un pensiero rosso e partigiano”), i duetti con Adriano Celentano a Rock economy del 2012 e decine d’altri, anche con J-Ax e con Elio e le Storie Tese.
Assieme, Morandi e Baglioni avevano duettato su disco nel 2007 (Grazie a tutti) e nel 2009 (QPGA). Già, i duetti. Da molti anni strumento promozionale, oltre che segno di affinità elettive: si pensi, in passato, a Frank Sinatra che canta assieme a Bono degli U2 (e di recente, post mortem, anche con Kylie Minogue) oppure, in anni più prossimi a noi, il veterano Tony Bennett che fonde la sua voce da crooner con quella di Lady GaGa.
Il senso di queste operazioni è una duplice legittimazione o, se preferite, un reciproco vampirismo: il vecchio che si aggrappa al giovane e dice vedete, non sono superato, e il giovane che dice, vedete che belle compagnie, che pezzi di storia frequento. Rispetto a loro, l’alleanza fra Baglioni e Morandi è più naturale e, al tempo stesso, più trasparente: due grandi esponenti della tradizione musicale italiana separati da appena una generazione, uno 64 anni e l’altro 71, due persone più coraggiose di quanto non si possa sospettare nella loro apparente medietà (di Morandi si è detto, per Baglioni basterà ricordare, a chi si è fermato all’immagine stereotipata di quella sua maglietta fina, anche solo il bellissimo e assai sofisticato Io sono qui del 1995, arrangiato dal jazzista Tommaso Vittorini e dall’ex Canzoniere del Lazio Pasquale Minieri), due che grandi passi falsi non ne hanno mai fatti. Musica di papà? Può darsi, ma non mi sembra di vedere nessuna nouvelle vague alle porte.
Non sono solo canzonette. Il successo di Capitani coraggiosi non è casuale. Viene da un’ attitudine scaltrita al rapporto con il pubblico: la pagina Facebook di Morandi, esempio notevole e civile di come si comunica, ha 2.226.919 like, quella del più schivo Baglioni appena 734.000 like, e scusate se è poco. Morandi poi almeno dal 1981 è, oltre che un cantante popolare, una star televisiva che in spettacoli, varietà e fiction sfiora ogni anno il 30 per cento dell’audience. Un ospite fisso, insomma. E Baglioni, dal canto suo, è uno dei pochi innovatori italiani dei modi di diffondere la musica: il primo a offrire un album a pezzi, singolo dopo singolo, in digitale. Ma anche il primo a fare una tournée tutta negli stadi, a fare l’one-man-band grazie all’elettronica, a montare un palco circolare al centro dello stadio prima che lo facessero gli U2, e così via. Dite che non conta, che basta la voce e uno strumento? Non ci credono più neanche i nipotini dei punk.
La pratica dell’ostensione. Certo, quei 50 classici o quasi sciorinati nelle tre ore di concerto sono un po’ come le reliquie offerte alla vista (in questo caso all’ascolto) dei fedeli. Se volete paragoni meno solenni o meno inquietanti, un po’ come l’argenteria e le vecchie tovaglie di Fiandra tirate fuori dai cassetti. Più che un esercizio di nostalgia, in questo e in altri casi – è stata molto diversa la celebrazione dei quarant’anni di Alice all’Arena di Verona da parte dell’ottimo De Gregori & friends? È molto diversa la rivisitazione in chiave electro-pop dei vecchi successi che Luca Carboni va facendo proprio in questi giorni? – è il caso di parlare di serialità con variazioni.
Si presenta il vecchio repertorio anche quando non manca quello nuovo (gli ultimi album di inediti dei due sono, per gli standard attuali, abbastanza recenti) perché la canzone già nota, come il personaggio fisso del poliziesco o della serie tv, sollecita la complicità (la pigrizia, dite?) del pubblico. Si presenta il repertorio, a seconda dei temperamenti, cercando di reinventarlo (De Gregori, sulla scia di mastro Dylan), o con lievi variazioni, che al tempo stesso sorprendano e rassicurino. In questo tour, garantiscono l’effetto di relativa sorpresa più Non son degno di te cantato da Baglioni, con pochissime eccezioni soltanto interprete di se stesso, che Sabato pomeriggio fatto da Morandi che ha cantato spesso brani altrui. Poi, è lo spettacolo baby, c’è Baglioni che accompagna Morandi al piano, Gianni che ricambia il favore suonando il contrabbasso in Poster.
Diversamente che al cinema o in libreria, nei concerti le novità da sole non premiano. Non è storia di oggi. Abbastanza recente, diciamo degli ultimi quindici-vent’anni, è invece l’attitudine ad aggiornare costantemente il repertorio: nuove antologie, nuovi greatest hits, live a testimoniare ogni tour. Ci sono cantautori ai quali l’ispirazione non fa difetto e che tuttavia, con le registrazioni dal vivo, hanno costruito parte non indifferente della loro discografia. Si tratta di celebrare, ogni volta, la nuova unione mistica con il pubblico, certo. Ma anche di aggiornare il catalogo e, per quanto i dischi vendano poco rispetto al passato, di non deprimere troppo i prezzi. Volete un esempio? Capitani coraggiosi, il doppio CD, costa a seconda delle catene dai 19 ai 25 euro. I vecchi album e le vecchie raccolte di Morandi e Baglioni vanno via a un minimo di 5 e a un massimo di 15,99 euro. Fate un po’ voi i conti.
La nostalgia non è più quella di un tempo. Siamo nostalgici? Forse sì, ma al tempo stesso siamo obbligati a essere nostalgici: il “nostos” dei greci, il desiderio di Odisseo di tornare a Itaca, o il più prosaico “mal du pays” francese, c’entrano pochino. Semplicemente, grazie a Internet e alla sterminata mole di musiche che solo YouTube ha messo alla portata di tutti (oggi anche Spotify, tanto che potremmo tranquillamente disfarci delle nostre collezioni di dischi), il passato è più che mai nostro contemporaneo.
Galleggiamo su un tappeto sonoro che rende gli Arcade Fire (o i Tame Impala o Rihanna, ognuno scelga i suoi) vicini e contigui a Billie Holiday, al prog dei ’70 e allo chansonnier dei ’50. Sarà un caso che le cover, glorioso reperto dei ’60-’70 dello scorso secolo, siano ritornate di prepotenza a occupare il centro della scena odierna? Che i programmi televisivi, da X-Factor alla De Filippi, dai bambini della Clerici a una parte cospicua degli ultimi Sanremo, siano appaltati ai brani di ieri rifatti da volonterosi interpreti di oggi?
Per continuare con gli esempi, sarà un caso che gli interpreti prevalgano sugli autori, e che anche per i musicisti più talentuosi e versatili (penso per esempio a Stefano Bollani) la cifra prevalente sia l’eclettismo? Un tempo – e anche questa è nostalgia, me ne rendo conto – la musica parlava con prepotenza un linguaggio del presente ribellandosi a quella del passato. Oggi continua a farlo, è impossibile che non lo faccia, ma noi la percepiamo meno, immersi come siamo in un secolo di canzoni che si mischiano fra loro in mille colonne sonore individuali e collettive. Accade così alla musica leggera, almeno a quella mainstream, di essere diventata un piacevole anacronismo (la definizione, cito a memoria, la diede Orson Welles conversando con Peter Bogdanovich a proposito del teatro di prosa e dell’opera lirica). E può accadere, ascoltando La vita è adesso, di pensare che la vita che ci viene offerta in ascolto sia in realtà quella di avantieri. Accontentiamoci, anche così non è male.