La Galleria Giò Marconi, attiva ormai da 25 anni al fianco dell’omonimo Studio poi diventato Fondazione, presenta una mostra di Enrico Baj, uno degli artisti…
La Galleria Giò Marconi, attiva ormai da 25 anni al fianco dell’omonimo Studio poi diventato Fondazione, presenta una mostra di Enrico Baj, uno degli artisti fondanti della scuderia di Giorgio Marconi. Minestra riscaldata, si potrebbe pensare, utile solo a richiamare l’attenzione sulla mostra organizzata in parallelo alla Luxembourg & Dayan Gallery di New York, un’antologica coi fiocchi, impreziosita da un allestimento capace di evocare l’atmosfera da gesamtkunstwerk (opera d’arte totale) delle stanze della villa vergiatese del pittore. E invece no. Anche se il pubblico milanese – compreso quello più giovane – può vantare una certa familiarità con dame e generali, o con le opere del periodo nucleare, a metà fra informale e dada, pochi ricordano le sperimentazioni condotte da Baj verso la fine degli anni Sessanta con il plexiglass, i mattoncini della LEGO, l’acetato di cellulosa, il polietilene, il PVC imbottito e l’alluminio. In queste prove, esposte da Giò Marconi, «era il materiale che gli suggeriva veramente cosa fare», come ricorda Roberta Cerini Baj, energica e instancabile vedova dell’artista.
La mostra da Giò richiama quella organizzata nel 1969 dal padre Giorgio, Baj at Marconi’s: l’invito era stato stampato su una cravatta di plastica, i visitatori potevano portarsi a casa una borsa contenente multipli e souvernirs di vario genere e, allora come oggi, al centro dell’esposizione stava La cravatta di Jackson Pollock, un collage di plastiche in omaggio a uno dei padri dell’Informale. A distanza di quasi cinquant’anni quella mostra ci appare come una vivace riflessione su alcune delle rivoluzioni determinanti per il passaggio dalle avanguardie alle neoavanguardie: l’oggettivazione dell’opera d’arte di Duchamp, l’attenzione alla materia e al gesto di Pollock, la fusione dell’arte con la moda e la pubblicità di Warhol.
Baj guarda senza paura a questi punti di rottura di portata epocale e internazionale, rielaborandone forme e contenuti con inesauribile ironia, la stessa che gli consentiva di trattare politica e attualità con la serietà e la leggerezza del miglior comico. Ne emerge, irriducibile, la sopravvivenza della figura antropomorfa, per quanto grottesca, deforme o irrisa. Ridotta magari al correlativo totemico di una cravatta quasi buzzatiana, che «per alcuni è nodo scorsoio, per altri un fallo pendulo, per altri ancora la prosecuzione del cordone ombelicale […], la decorazione preferita dall’uomo moderno, perché sostituisce completamente medaglie e decori militari e civili. La cravatta è il migliore simbolo della società occidentale contemporanea».
EnricoBAJ. Baj at Marconi’s. Plastics 1967-1969, Galleria Giò Marconi, fino al 31 gennaio 2016
Immagine di copertina: Invito in forma di cravatta di plastica per la personale di Enrico Baj allo studio Marconi, febbraio 1969, Mart, Archivio del ‘900 del MART, fondo Baj.