I bambini non esistono

In Cinema, Letteratura, Teatro

I bambini a teatro e al cinema: l’infanzia, come costrutto culturale ottocentesco in tandem con la sessualità, è il perimetro invisibile, una soglia arbitraria entro cui “performare” l’infanzia e l’innocenza, rassicurare gli adulti, fingere di essere dei soggetti che non ne sanno di sesso, non ne sanno di droga, non ne sanno di profonde questioni esistenziali che invece spesso ci investono molto prima di quanto si creda opportuno

Un’amica attrice – un’attrice straordinaria, una specie di efebo sublunare con una mente affilata come una felce – una volta mi ha detto: io non mi fido degli spettacoli in cui vanno in scena bambini, animali e disabili. È un’affermazione che negli anni ho sentito risuonare vera anche per me: questi tre soggetti sono una sorta di scorciatoia emotiva da palcoscenico, il doping della scena. I bambini a teatro poi vengono impiegati proprio per addensare un’emozione tenera o un’atmosfera di innocenza e lo fanno malgrado loro. La poetessa Mariangela Gualtieri li definisce divinità domestiche: quella particolare luminescenza ha però spesso un’unica lettura e spesso viene data loro meno possibilità di estenderne i contorni espressivi e drammaturgici e quindi spesso li pone in una distanza abissale dallo spettatore. Ma il problema è proprio questo, che spesso a teatro i bambini mettono in scena i bambini, o quello che noi pensiamo dovrebbero essere i bambini. L’infanzia, come costrutto culturale ottocentesco in tandem con la sessualità, è il perimetro invisibile, una soglia arbitraria entro cui “performare” l’infanzia e l’innocenza, rassicurare gli adulti, fingere di essere dei soggetti che non ne sanno di sesso, non ne sanno di malattia mentale, non ne sanno di profonde questioni esistenziali che invece spesso ci investono molto prima di quanto si creda opportuno o in linea con certe tendenze pe-da-go-gi-che. Così sul palco i bambini sono più bambini di quanto non lo siano davvero.

 

Eccezione alla regola

Ma ovviamente tutto fa eccezione almeno una volta e per me l’eccezione è Milo Rau, il regista svizzero alla guida dell’International Institute of Political Murder, che negli ultimi anni ha portato in scena diverse opere di teatro politico in tutto il mondo e di cui ho potuto vedere Five Easy Pieces  al Teatro dell’Arte della Triennale. La posta in gioco è altissima: far salire sul palco sette bambini tutti sotto i dodici anni insieme a un adulto per raccontare la storia di Marc Dutroux, il Mostro di Marcinelle, accusato di aver sequestrato tra il giugno del ’95 e l’agosto del ’96 sei adolescenti e di averne uccisi quattro. Il titolo Five Easy Pieces, con quella disinvoltura che allude a una monumentale sofisticazione, definisce la ripartizione degli “atti”, delle varie fasi con cui i bambini ci raccontano la vita e le azioni di Dutroux: le origini, le indagini, gli atti di pedofilia, il riverbero sulle famiglie coinvolte e sulla nazione intera e un’ultima parte che si riallaccia alla prima in cui i bambini vengono presentati con il loro vero nome e in qualità di artisti.

L’adulto in scena – un uomo, in mezzo a sette bambini, che dal primo momento solleva in ciascuno spettatore lo stesso interrogativo tacito e agghiacciato, legato alla natura dell’opera (sarà lui il pedofilo?) – chiede ai bambini di fare azioni che richiamano il mondo televisivo preponderante (canta una canzone, fai un balletto, cosa ti piace? cosa desideri?), con occasionali interferenze come “Sai chi è Patrice Lumumba?” (eroe dell’Indipendenza del Congo, paese in cui Dutroux ha trascorso l’infanzia) o “Still!”, il classico Zitti! che qui però manda subito un brivido lungo la schiena perché preannuncia il fantasma dell’abuso imminente.

L’abuso è confermato da un metodico uso della telecamera polisemica (pedofilo, panopticon, spettacolo): l’adulto mette la telecamera di fronte al bambino che mette in scena i diversi momenti del racconto e le riprese vengono proiettate direttamente sul grande schermo: così ogni “rappresentazione” della storia del mostro è agita sul palco, sul video e perfino in delle ricostruzioni precedenti dove a recitare sono però attori adulti.

“La cosa che più mi ha affascinato nel processo di lavoro in quanto regista – spiega Rau – è stata la sfida di creare, attraverso un metodo sistematico di lavoro, concentrazione e precisione in un gruppo di attori che in realtà ha solo voglia di correre all’impazzata e di giocare. Da questa sfida prende spunto il titolo, che riprende quello di un libro per piccoli aspiranti pianisti”. Quindi ecco un esercizio facile e al tempo stesso impossibile.

 

Prendere posizione

“Quando scrivo un’opera teatrale uso la stessa metodologia che un sociologo applicherebbe a una ricerca: se devo scrivere sulla Russia di Putin o sul Congo, vado nel paese, parlo con le persone, talvolta le invito sul palco”, ha detto il regista in un’intervista. Quindi chi meglio dei bambini veri per un’etnografia della pedofilia? Risparmio ovviamente a questo articolo la ridda di critiche e polemiche, legittime o meno, sulla tutela dei bambini e sul rischio di coinvolgere i bambini in uno spettacolo per adulti su questa storia e questo tema. Forse quest’opera è davvero un atto di pedofilia: non nell’accezione irrimediabilmente infetta del termine coniato dallo psichiatra viennese Kraf-Ebbing ma dando al suo significato più antico il compito di riequilibrare il rapporto degli adulti con queste persone che sono i bambini: a partire dalla composizione di paidòs, fanciullo, e philìa, ovvero amore che si fonda su un rapporto relazionale libero, paritario, senza velleità di possesso. Questo è il piano di relazione su cui il regista mette i bambini e il pubblico. Sul palco rimaniamo fermi a chiederci se i bambini sappiano di cosa stanno parlando o quali emozioni stanno provando. Ma nella loro deliberatezza e naturalità la risposta è chiara. Cosa succede quando dei bambini parlano di cose da grandi? Cosa ne sanno i bambini della violenza, della pedofilia, del profondità del dolore? Cosa succede quando con passi cauti si prova a sondare il confine tra lecito e inaudito?

Un’amica parlando al telefono di questo spettacolo ha provato un agghiaccio persistente dall’inizio alla fine. Non solo: lo ha percepito a livello collettivo nel momento in cui uno dei bambini fa la parte del padre di una delle vittime. Ricostruisce tutto l’accaduto, dalla sparizione al ritrovamento del cadavere e verso la fine l’adulto chiede al bambino se può piangere. Il bambino si sforza un po’ ma non riesce. Allora gli vengono portate delle lacrime artificiali e ripete la scena. Il pubblico in quel momento ha riso, ma non ha riso perché fosse divertito, piuttosto come a proteggere la scena e soprattutto il bambino, ha detto la mia sensibile amica. Una botola vuota si spalanca sotto lo spettatore: posso ridere con questo bambino di quello che sta facendo? Posso lasciarlo libero di giocare con questi fatti? La mia sensazione è che, con la consapevolezza di quella specifica età, in quella fase assolutamente artificiale che è l’infanzia e che ognuno percepisce e vive in modo unico e irripetibile, quei bambini sapessero perfettamente di cosa stessero parlando.

 

 

Ridefinire l’innocenza

Lo stesso regista era abbastanza scioccato quando si è reso conto di quanto i bambini sapessero del caso Dutroux. Èd è qui forse che si gioca la partita di tutto questo spettacolo: la possibilità del mezzo espressivo di rivelare un bambino altro da sé: i bambini – i pupi del pasoliniano “Che cosa sono le nuvole” citato e raccontato e che offre il titolo all’ultimo easy piece – vengono liberati dall’oscuro teatro dell’infanzia e, attraverso la dimensione performativa, nel gioco del ruolo preso a prestito per qualche minuto, riescono a vedere il cielo, finalmente il cielo, dove passano le nuvole. E il bambino che è ancora bambino (Als das Kind Kind War) può osservare le nuvole di passaggio disegnare e ridisegnare nuove forme e nuovi personaggi, senza provare vergogna e senza che nessuno gli imponga una fittizia soglia di innocenza da rispettare.

È uscito in questi giorni IT per la regia di Andy Muschietti. Non dimenticherò mai quella sera negli anni novanta che segna la fine della mia infanzia: passando davanti al salotto di casa ho visto sullo schermo del televisore il ghigno terrificante di Tim Curry che impersonava Pennywise, il malefico clown che si nutriva di paure e prediligeva dunque quelle dei bambini, così nitide e prepotenti. Quella miniserie – tra l’altro cinematograficamente scarsa – ha messo sotto sequestro l’immaginazione di chi aveva sei anni o poco più negli anni novanta: la sottoscritta per esempio non riusciva a passare davanti a un lavandino o una vasca senza immaginare di vederne uscire uno schizzo di sangue ed era chiamata in causa anche la mia sessualità, la vicinanza della mia vagina ai mostri del W.C.

E siccome nel trauma ci sguazzo, prima di vedere il film mi sono letta tutte le interviste e i piccoli video di “dieci cose che dovete sapere su IT prima di vederlo” che si trovano su youtube. Bill Skarsgård, l’ottimo attore che in questa versione incarna Pennywise, racconta in un’intervista una delle prime scene girate insieme ai ragazzini – i sei losers che combattono Pennywise e la sua letale morsa demonica sulla cittadina di Derry. Quella scena prevedeva che Skaarsgard mettesse le mani intorno al collo di uno dei bambini e lo facesse spaventare con ghigni, urletti, sibili, ringhi e tutto quello che un demone di quel tipo poteva fare. Mentre il bambino urlava terrorizzato, in una parte recondita della sua mente Skarsgård pensava “cazzo, forse sto traumatizzando un bambino”. Danno il “cut!” e il bambino tra le sue mani passa da un’espressione di puro terrore a urlargli indicandolo con un dito “I love what you’re doing with the character, I fucking love it” (Adoro quello che stai facendo con il personaggio, cazzo lo adoro). E Skarsgård si è reso conto che ci sarebbe voluto ben altro per terrorizzare quel bambino attore.

Tralasciando la lunga e complessa questione degli attori-bambini e del loro complicato universo emotivo che inizia da Drew Barrymore e finisce con Lindsay Lohan, penso sia importante cominciare ad aprirci alla possibilità che questa relazione – sfumata – tra finzione e autenticità, tra recitazione e spontaneità possa, nella sua irrisolvibile tensione, creare un campo elettromagnetico in cui, un bambino impersona l’adulto e lo fa meglio dell’adulto, come i bambini di IT che dicono parolacce da durissimi, i bambini di Five Easy Pieces che si truccano da vecchi o mimano i genitori preoccupati, fino ad arrivare al bambino de “L’infanzia di un capo”, incarnazione bionda e pura – perfettamente lucida – del male nazista, consapevole di sé e delle proprie capacità manipolatorie, in larga parte tutelate e potenziate dal proprio temporaneo passaggio nell’età dell’infanzia: questi bambini non fanno finta di essere qualcosa, lo fanno davvero. (E non parlo di Stranger Things solo perché non l’ho mai visto)

Come dice Giovanna Zoboli, scrittrice per l’infanzia e fondatrice di Topipittori, in un meraviglioso articolo apparso su doppiozero qui, (Cosa cercano gli adulti nei bambini?) questo “investimento simbolico di massa sull’infanzia” arriva proprio quando l’adulto “sembra sempre meno propenso a riconoscere, attribuirsi e fare esperienza della […] maturità”. Ma forse, come suggerisce la Zoboli, è il tentativo affannato di trovare questo leggendario “bambino interiore” a spingere ancora di più verso un’idealizzazione di alcuni presunti sintomi dell’infanzia, quasi a coltivare un culto – questo sì nell’accezione più sinistra della pedofilia – verso cui prodigare la propria devozione. A proposito di fenomeni sinistri e di bambini che non esistono: le bambole reborn sono dei pupazzi di silicone iperrealisti che riproducono le fattezze di un vero neonato, compresa pelle morbida al tatto, battito cardiaco, macchie di latte, ovviamente dietro lauto compenso per il Geppetto fabbricareborn. Sono nate negli Stati Uniti e si sono diffuse in tutte il mondo per colmare il vuoto di un figlio mancato o una solitudine già troppo organizzata per ospitare la reale imprevedibilità di un figlio. Le mamme di un reborn possono così fare esperienza del gesto della maternità in tutta la sua dolce ma controllata complicazione: non c’è solo il delizioso momento della scelta dei vestitini – ancora ricordo le pieghe della gonnella di sbrodolina – biberon, pappe e nutella per riprodurre la cacca. Grazie al blog del Signor Distruggere – infiltrato in un gruppo chiuso fb di mamme reborn – abbiamo infatti scoperto che una pagava una baby-sitter, assicurandosi che facesse silenzio perché “la bimba dorme”, l’altra faceva finta di portarla dal pediatra oppure un’altra inscenava momenti di finto malore del neonato. Ma senza arrivare a questi casi estremi non è impossibile che, guardando bene nella carrozzina che vedete per strada, possa capitare di scorgere un reborn invece che un bambino vero. Questo è un rapporto che non copre una presunta solitudine esistenziale: soddisfa il bisogno di un’esperienza unilaterale, piena espressione di un pedocannibalismo che lascia spazio alla madre reborn di fare di nuovo esperienza dell’infanzia senza la delusione di vedere il bambino scomparire e lasciare spazio all’adulto. La maternità – questo bisogno di essere regolarmente necessari a qualcuno o a qualcosa, come giustamente aveva osservato il creatore del tamagochi – con le reborn diventa pura esperienza che non apre alla creazione. E se non c’è creazione di figlio “biologico”, non c’è neppure creazione di un figlio “logico” (penso alle donne senza figli che si buttano anima e cuore in un progetto di beneficenza) perché la narrazione di questo figlio è assolutamente solitaria, – “com’è silenzioso suo figlio!” dicono le altre, mentre l’unica a sapere la verità è la mamma reborn. Anche se è legittimo chiedersi se non ci siano momenti in cui la mamma reborn si dimentichi che il figlio è un mucchietto di silicone ben truccato, proprio come da bambini facevamo “come se” e certe volte ci credevamo talmente tanto da esserlo (nella mia piccola esperienza posso dire con assoluta certezza di essere stata un delfino intorno agli otto anni, un mago a dieci e un famoso professore a undici).

Se quindi siamo spesso tentati di pensare che i bambini siano nei guai a nascere adesso – “ah la televisione li sta rovinando!”, “a tre anni con il cellulare in mano!”, “ah sono obesi!” – i bambini continuano a essere tali mentre sembra piuttosto l’adulto il soggetto smarrito: da un lato per paura di perdere il proprio posto nel mondo dei “grandi”, spegne senza troppe discussioni le scintille di infanzia che spesso gli punzecchiano le chiappe, mentre dall’altro tenta di fondersi nel magma di prime esperienze che il bambino attraversa: ma nella propria irriducibile alterità, nel furibondo e caotico mondo pieno di avventure, nell’essere piccoli e geniali, nel dichiararsi inventori della propria infanzia, il bambino trova riparo dalle proiezioni, sempre più deboli, del mondo di adulti cannibali che li circonda.

 

Immagine di copertina: cast di Five Easy Pieces. Photograph: Phile Deprez

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