Al Bar Sport con gli artisti

In Arte

L’arte italiana del Novecento in poche battute scambiate al bar tra tre artisti: una giovane pittrice (la nostra Sofia Silva), l’Americano e l’Italiano. Ma non è una barzelletta.

Sono a Cetona con l’Americano, leggenda dell’arte losangelina. Mi ha proposto di seguirlo per le colline senesi. Siamo seduti al Bar Sport.

«Ho venduto due once di sabbia nel deserto arabico, ho inciso i muri delle gallerie del Cile, ho fatto vedere il cielo a chi guardava solo quadri, ho assistito Ben Vautier mentre gettava all’aria la scatola in cui aveva rinchiuso l’idea di Dio, ho pulito mille banconote con il polpastrello del mio indice. Ma non ho mai firmato niente, il deserto cancella ogni firma e i muri di galleria sono sempre tinteggiati a nuovo.

Vedevo piaghe sulla schiena di mio padre, piaghe in America, piaghe in Europa, piaghe sui giornali nella sezione di cronaca e in quella dei titoli in borsa. Ho spostato l’Equatore cinque centimetri più in basso, mi sono filmato con le mani nelle mutande, ho stretto la mano a Marcel Duchamp, lui me l’ha stretta mollemente. Mio padre non capiva niente di quel che facevo. In punto di morte mi ha chiesto se avevo i soldi per vivere» inveisce l’Americano, mentre io addento un panino. Poi stringe con forza i braccioli della sedia: «Sì, Papà, li ho i soldi».

Valentino Garavani, Guido Ceronetti e Pippo il ceramista sono i Lari dell’antico paese. Le dimore di questi tre, villa, laboratorio e antro del poeta, sono ai vertici di un triangolo scaleno i cui assi s’incontrano proprio al bar. Un uomo molto vecchio e molto alto ci fa cenno con la mano dal centro della piazza. Regge sulla spalla una giacca candida con le asole di filo verde.Ci raggiunge e siede al nostro tavolo.

“Hi Italiano!” lo accoglie l’Americano. L’Italiano ordina per sé e per l’Americano un piatto di pici. I due si confrontano per un’ora sulla qualità del Vino Nobile. Tento d’intromettermi nella conversazione.

«È vero che lei ha conosciuto proprio tutti? Sironi, Morandi, Ojetti, Soffici, Fontana? E Papini? Ha conosciuto Papini? Sa che aveva un vigneto?»
«Sì, li ho conosciuti tutti e ne ho misconosciuti altrettanti» risponde l’Italiano con un guizzo negli occhi.
«Eh, così tanti sono da misconoscere…» rincalzo. «Di chi stiamo parlando?»
«Lei non è scema signorina».
«Grazie».

L’Americano soffia in assenso. «L’arte italiana si è spenta negli anni Quaranta. Dopo ha trionfato la cinematografia e l’eco di qualcheduno che ha vissuto a lungo. Gli artisti italiani hanno perso la leggerezza in un giorno. Prima vivevano nella cultura e creavano nella dimenticanza, poi cominciarono a creare nell’erudizione e a vivere nell’ignoranza. Si sentivano impotenti, mortificati…».

«Chi ha mortificato gli artisti?» chiedo.
«È tipico della giovinezza voler trovare il colpevole. Mi permetta». L’Italiano ride e puerilmente succhia su l’ultimo pici.
«Mi scusi, ma lei c’era a L’Attico, alle Quadriennali, ha visto nascere l’informale italiano, l’arte povera, era con Szeemann. Vi siete messi d’accordo, lei e l’Americano, a rinnegare tutto? Stando a voi io ho dato esami di Storia Apparente dell’Arte Contemporanea».
«Lei proprio non è scema».
«E la smetta di farsi dare in continuazione della scema da me!».

L’Italiano socchiude gli occhi. Taccio. Ora l’Italiano spalanca gli occhi. Continuo a tacere. L’Americano entra a scegliere un dolce.
«E Burri?» chiedo.
L’Italiano flette la mano sul tavolo. «Ci pensi, signorina. L’Humanitas, che ha contraddistinto l’arte italiana nella storia, sta nel fatto che gli artisti, anche i più atei, hanno sempre trattato con dolcezza e domesticità Dio e la morte. Anche nel più violento manierismo, nelle più efferate decollazioni, l’arte italiana ha mantenuto un velo d’indulgenza, di paura, di comprensione verso l’incomprensibile. Come ha potuto Burri cospargere di cemento le rovine di Gibellina? Il sale sulla terra era un vezzo dei soldati romani, un segno di fragile onnipotenza. A un artista sarebbe mancato il coraggio».

Esce un cameriere d’altri tempi, la faccia sgrammaticata. «Che vi posso portare?»
«Lei è imbarazzante, giovinotto. Quanti anni ha? Sedici? Lei è troppo bello». L’Italiano si schermisce.
«Beautiful, beautiful, isn’t he?» mi chiede l’Americano.
«Mi porti una coppa di cosce di monaca» chiede l’Italiano. Poi si rivolge al suo amico: «Cosce di monaca – urla – nun’s thighs, sono prugne – urla ancora – plums, snelle agli apici e morbide al centro, come le cosce di una monaca».

Il cameriere entra con l’ordinazione. Riprendo il discorso.
«E Fontana
«Burri e Fontana glieli smaschero con lo stesso argomento. Ascolti: nel Novecento l’arte ha combattuto per tante libertà. Qual è l’unica libertà per cui si sarebbe dovuto battagliare e invece non s’è mosso un dito tranne che per qualche vano tentativo?»
«Problematica dell’unicità dello stile – gli rispondo – Agli artisti manca la libertà di cambiare a seconda delle necessità dell’opera. La pretesa riconoscibilità dello stile da parte di mercato e pubblico fa crepare di noia l’artista».
«La sento preparata».
«Il grande artista ne fa dieci solo se pensa di avere un pubblico cretino, insensibile di fronte all’Uno. Si sta dipingendo l’Opera? Inutile lavorarne una serie. Sarebbe come vincere Austerlitz contro gli austriaci e poi vincerla una seconda volta contro i cadaveri degli austriaci».
«Facile e profanatorio» aggiunge l’Italiano.

Si rivolge a una coppia di sposi intenti a farsi fotografare davanti alla fontana di Cetona. «Guardi che brutti». Lo sposo è un signore sui quarant’anni dalle braccia gracili, asciutto e calvo. Il sorriso della sposa spinge troppo in avanti la mascella inferiore.
«A me sembrano piuttosto felici» rispondo.
«Se provasse un po’ di simpatia per quei due, allora parlerebbe diversamente».

L’Italiano morde una coscia di monaca. Poi la stacca dal palato e osserva la C formata dal segno dei suoi denti. «Noti signorina che quasi tutta l’arte del secondo Novecento italiano ha lavorato in serie. Parlo di serie perché variazione è una parola ben diversa. C’è Austerlitz e poi ci sono i singoli giorni della battaglia di Austerlitz, che sono le sue variazioni. Quando invece l’uomo sente la necessità di lavorare in serie… La trovata di compensare l’insicurezza con il numero è sempre presente nella storia, Bruto ebbe compagnia nell’uccider l’allor già cinquantaseienne Cesare. Se Fontana avesse compiuto il taglio su una sola tela, avrebbe potuto mantenere il sapore di una rivelazione. Invece i tagli di Fontana s’incontrano in ogni città d’Italia, al pari dei film porno».

Alla parola porno, l’Americano alza l’occhio sinistro, dalla panna cotta sbircia la marmellata di pesche e lavanda. «La misterica idea di Burri e l’altrettanto grande idea di Fontana sono pronte a combattere la loro Austerlitz, ma rimarranno sempre idee».
La conversazione mi ha fatto crescere un languore allo stomaco, l’Americano s’impiastriccia la lingua di panna cotta. «La prova è che quei due si lagnavano sempre. E che anche noi, dopo il pensiero sull’infinità del mondo che si fa davanti al primo Fontana, già al secondo si tira dritto senza leggere la didascalia».
Una poderosa risata sbatacchia Cetona. L’Italiano ha ormai alzato le dighe di un incontenibile flusso di parole. «Arturo Martini. Lui sì che correva dietro le sottane dell’arte, che si divertiva. Aveva le sue angosce, scrisse le sue riflessioni, ma certo gli mancava l’ansia di fissarle su un manifesto, non aveva di queste insicurezze. Anzi, sperava sempre di cambiare idea».

L’Americano si è addormentato sulla sedia con una gamba stesa all’infuori. Un gatto si strofina addosso alla sua scarpa. L’Italiano continua: «Martini aveva una storia. C’era una pianura che voleva essere una foresta e per diventarlo scelse le sementi più pregiate e scartò le altre. La pianura si trasformò in una foresta di alberi uguali, disposti in spazi uguali, perfetta. Ma i passanti preferivano guardare alla strana macchia nata dalle sementi scartate. La foresta chiese alla macchia il perché tutti preferissero lei. La macchia di Martini rispose: Si capisce perché tutti guardano me. Perché io sono una cosa umana, e tu sei un’idea».

L’Americano riposa reggendosi la testa grazie a un dito ficcato nell’orecchio. «È morto?» chiedo. Il dormiente ha le labbra blu.
«È una cosa che gli artisti imparavano a fare dagli stregoni nei primi anni Settanta per creare un po’ di mito intorno a sé». L’Italiano passa la mano tra i noccioli ammucchiati nella coppa.
«Ho ancora una domanda – continuo – e la materia? Ho sempre pensato che anche laddove l’artista è stato un ideologo, la vita propria della materia sia sempre riuscita a contrastarne la volontà».
«Da come parla sembra che il compito della materia sia riscattare l’opera di fronte all’impermeabilità spirituale dell’artista. Accettiamo ancora artisti che schiavizzano la materia al duro compito di pensare in loro vece? Uno scultore che si affida alla nuda espressività della roccia? Un pittore che delega ogni responsabilità all’impeccabilità di una stampa inkjet?» L’Italiano paga il conto. Ventiquattro euro. «Sofia, lasci lei la mancia». Fiuto il tranello e lascio altri ventiquattro euro nelle mani del giovane cameriere. L’Italiano si congratula alzando la coppa di prugne.

Foto: Lefteris Katsouromallis

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