Alla Galleria Milano una mostra personale che è in grado di mettere in luce aspetti inaspettati del grande artista toscano. E regala qualche piccola gioia
Alla Galleria Milano ha da poco aperto una mostra personale sui primi anni dell’attività di Gianfranco Baruchello. Il tema dell’esibizione abbraccia opere che vanno dal 1959, anno in cui l’artista trentacinquenne decise di lasciare la vita da farmacista per dedicarsi all’arte, fino alla fine degli anni sessanta in un costante dialogo tra due correnti diverse che qui trovano un trait d’union: informale materico e segnico.
Già allievo di Duchamp, Baruchello è sempre stato volto al vivere in movimento, all’ibridare diversi contesti per vedere cosa ne potesse uscire, alla sperimentazione spinta. In quest’atmosfera dal profumo DADA si dipana un percorso di opere fortemente improntate all’informale che, grazie ad una commistione di tecniche, ci ricordano da una parte le trame delle opere di Burri e dall’altra i criptici linguaggi di strani caratteri di Capogrossi. Il primo emerge nell’uso copioso di vernici smaltate al caolino, crepate in un dedalo di microscopiche fessure. Caratteristica fondamentale è che queste crepe sono in realtà programmate e quindi disegnate, cosa che lo fa avvicinare più ad un’impronta di tipo segnico. Non mancano poi diversi tentativi di trovare un linguaggio espressivo proprio attraverso dei simboli, un esempio è il ricorrente pezzo di puzzle o le cinque onde in successione, che vediamo ripetuti in molti suoi lavori.
Un altro ramo di attività figurativa di questo artista riguarda il disegno per livelli. Grazie all’utilizzo di lastre vetrate o in plexiglass Baruchello ha prodotto una serie di dipinti caratterizzati dalla sovrapposizione di diversi disegni, tutti popolati di minute figure, che richiedono al visitatore di avvicinarsi molto, e quindi a maggior ragione di goderne la tridimensionalità.
Non manca l’attività di puro carattere concettuale, come il libro intitolato La quindicesima riga, in cui ha preso la quindicesima riga di una serie di testi e le ha raggruppate in un unico volume. Questo stesso atteggiamento viene adottato nel suo esperimento cinematografico La verifica incerta, del 1963, in cui ha raccolto una serie di pellicole frutto di tagli dei più grandi colossal hollywoodiani e le ha montate insieme, creando un film che di fatto non ha un vero senso ma che in realtà pone l’attenzione sugli ingranaggi di quella macchina enorme che è l’industria cinematografica.
In alcune occasioni Baruchello prende in esame il tema del simbolo come veicolatore di un messaggio sociale per la folla. Un esempio è il Monumento ai non eroi, in cui la composizione con il cappello da carabiniere posto in cima svetta palesemente. In altre occasioni ricopre con la sua caratteristica vernice crepata delle riviste dell’epoca, chiamandole poi Cimiteri di opinioni, una lucida analisi delle dinamiche pop che andavano delineandosi in quegli anni. Si può quindi quasi intravedere un accenno alla pop-art, sponda che però non è mai stata apertamente abbracciata dall’artista.
Quella che si trova alla Galleria Milano è una mostra molto interessante e piacevole, che pur nelle sue ridotte dimensioni riesce benissimo a riflette alcuni aspetti di un artista la cui straordinaria poliedricità passa spesso in sordina.
Galleria Milano, Via Manin 13, Milano. Fino al 5 Settembre 2015
Foto: Gianfranco Baruchello, Meccanismo di un corto circuito, 1966