Jean Michel Basquiat, un monkey-man al Mudec

In Arte

Le straordinarie opere del “genio bambino” Jean-Michel Basquiat in mostra a Milano al Museo delle Culture, tra potenza formale e dubbi di opportunità.

 

«La cosa sorprendente è quanto tu sia intelligente». Così dice Tamra Davis nel video che accompagna la mostra di Jean-Michel Basquiat al Mudec di Milano. «La gente non ti immagina così». E il giovane, bello e trasognato Basquiat, con piglio sicuro e dolce, le risponde che i critici d’arte sono razzisti, più interessati alla sua storia che alla sua arte. «Per loro sono un monkey-man».

Chi è, invece, Jean-Michel Basquiat? È un artista che unisce potenza formale e forza compositiva, che si esprime tra rappresentazione e astrazione e che rappresenta sia la vitalità della New York della fine degli anni ’70 e dei primi anni ’80, che l’identità nera e la storia afro-americana e afro-caraibica. Così recita il primo dei molti e ben scritti pannelli che raccontano la mostra.

Ma Basquiat è anche molto altro, al di là della possibile sintesi. Un genio bambino, come recita una poesia di Langston Hughes letta da un amico d’infanzia al suo funerale. Un bimbo che prende in giro e gioca con le macchinine. Un ragazzo di vent’anni che trasforma un mondo frastagliato e caotico in cosmogonia feroce e lieve. Che ride in faccia a chi pretende di spiegare la vita a lui, che di vita ne ha vissuta fin troppa – scappato di casa, barbone, artista di strada, tossico, nero – per la gioia dei succitati critici. Un artista eclettico, writer, pittore, musicista, rapper, attore. Un primitivo, un nume tutelare, un suicidato della società.

 

Back of the neck, 1983, © The Estate of Jean-Michel Basquiat by SIAE 2016
Back of the neck, 1983, © The Estate of Jean-Michel Basquiat by SIAE 2016

 

Entrare al cospetto dell’opera di Basquiat è come entrare nel mondo di Baron Samedì – il Caronte Vudu delle sue origini haitiane – ricostruito a Disneyland. Le immagini si rincorrono e, nonostante un allestimento fin troppo lineare, creano un dialogo incessante e rumoroso tra loro. Un rumore bianco che trasporta lo spettatore in un carosello di segni e immagini eseguite con dissimulata maestria, lui che fin da ragazzo amava l’anatomia e usava il colore con impeccabile consapevolezza. Sagome, parole, scheletri da magia nera, mascelle e denti, e poi caricature, degli amici e dei maestri, scarabocchi infantili, scherzi e lazzi, art brut e barocco.

Basquiat è un artista completo, che entusiasma. Formalizzazione, contenuto e originalità, gesto animale e gesto pittorico assieme. Un “genio” nel senso latino di entità soprannaturale, anima ancestrale che convive in un unico corpo con un’umanità semplice e fragile. È complessità e respiro profondo, che emergono grazie allo sguardo della New York dei suoi anni, dello Studio 54, delle storie d’amore, dei critici e dei galleristi che lo notano e di  Andy Wahrol che lo trascina al centro, che ci lavora e ci gioca assieme. Ed è un talento che si spegne per gli eccessi, o per fisiologico esaurimento, con l’ingresso in quel “Club 27” che lo vede in compagnia di altri geni bambini come lui, Robert Johnson, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison.

Procession, 1986, © The Estate of Jean-Michel Basquiat by SIAE 2016
Procession, 1986, © The Estate of Jean-Michel Basquiat by SIAE 2016

Basquiat è tante cose. Ma non è e non deve essere un fenomeno da baraccone, un personaggio, una storia da raccontare per vendere. Come abbiamo sostenuto per ogni categoria sociale e umana, l’appellativo non deve mai precedere l’identità della persona, che non è mai outsider neanche quando, come nel caso di Basquiat, è ambiguamente insider al mondo dell’arte. Finché l’essere stato nero, tossico o barbone avrà un peso tale da rendere la sua arte un’illustrazione al racconto della sua vita, allora Basquiat non sarà considerato l’artista che invece, indiscutibilmente, è stato, bensì  inesorabilmente, anche se in buona fede, un monkey-man.

Qualche anno fa l’artista Jabulani Maseko, africano di nascita trasferitosi a Londra, insofferente verso il perdurare di quello stigma, appese alla porta del suo studio un cartello che diceva: «L’artista africano è uscito a caccia di leoni».  Una rivendicazione di identità nell’arte al di sopra di ogni altra categorizzazione fuorviante. E Basquiat, di spunti fuorvianti, ne offre fin troppi. Per questo non appare chiara la scelta di una sua mostra – che comunque merita per quantità e qualità delle opere – in un museo di dichiarata matrice etno-antropologica. Tanto più se l’ingresso è a fianco a quello di una mostra sull’Homo Sapiens.

 

Jean Michel Basquiat, MUDEC, fino al 26 febbraio 2017 

Immagine di copertina: Autoritratto, 1981, © The Estate of Jean-Michel Basquiat by SIAE 2016

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