I quattro londinesi, alla prova del loro secondo disco, dimostrano di saperci fare. Con i 14 brani di Wild World la band movimenta la scena pop
Wild World, il nuovo CD dei Bastille, non nasce all’improvviso. Sono passati quattro anni da quando le nostre orecchie sono state invase da quel ritornello così canticchiabile da non riuscire a smettere di riprodurlo in loop nella propria testa: i quattro, con il brano Pompeii, erano (e sono) riusciti a diventare una band di punta del panorama pop mondiale.
Il gruppo nasce a Londra nel 2010 e già nel 2012 firma per la Virgin records, con la quale pubblica immediatamente tre singoli, ovvero Overjoyed, Bad Blood e Flaws. Il successo è repentino e nel 2013 registrano l’album Bad Blood, che porta la band ad un’immediata fama e al disco di Platino per aver raggiunto e superato le 50.000 copie vendute. Niente male. Ma a cosa è dovuta questa esplosione a livello internazionale? La risposta è semplice e si trova in una parola di tre lettere, tanto essenziale quanto complessa nella musica degli ultimi cinquant’anni, POP.
I Bastille hanno trovato la chiave del successo, grazie a canzoni con strutture tipicamente pop: un piano con effetti elettronici, un basso semplice e diretto, una voce ricca di effetti e sempre intonata e potente, una batteria dritta e ben suonata e una chitarra che fa da tappeto su cui adagiare tutto il resto. E dopo che il primo disco ha ricevuto un così grande consenso da parte del pubblico, ora i quattro londinesi sfornano un altro album di 14 brani, con il loro stile inconfondibile.
Il titolo appunto è Wild World, due parole che stanno a significare un mondo selvaggio, confuso e poco dominabile, come si può vedere anche dall’immagine di copertina la quale mostra due ragazzi seduti sul ciglio di un grattacielo che sovrasta una metropoli immensa.
Wild World si apre con due brani da hit parade: Good Grief, che è anche il primo singolo estratto, si muove su un groove molto coinvolgente e intorno a un ritornello impossibile da dimenticare, e The Currents, pezzo anch’esso semplice e piacevole. Il disco alterna canzoni da urlare in un’arena a momenti invece più personali e introspettivi: da un lato Power e Glory giocano su una musica dance e rock e dall’altro An Act of Kindness e Two Evils rendono più cupa l’atmosfera. E con questo gioco di sali e scendi, si arriva all’ultimo brano che è Winter of our Youth, in cui tristemente Dan Smith e compagni raccontano che l’inverno della loro gioventù è arrivato e che con sé porta paura e dolore.
I Bastille riescono a muoversi molto bene all’interno di due generi apparentemente distanti, cioè il pop elettronico e il pop rock, grazie all’utilizzo di una strumentazione all’avanguardia e a un ottimo lavoro di post-produzione. In realtà quello che emerge dal disco è che i quattro sono riusciti a evitare il rischio tipico dei gruppi che riscuotono un successo immediato: rimanere una band one shot, incapace di aggiungere qualcosa di nuovo al mondo musicale di oggi. I Bastille, invece, sono riusciti a riproporre un sound funzionale e, allo stesso tempo, a reinventarsi per non sfociare nel banale. E non è poco.
Insomma, non si sono fermati al 2013 (all’epoca della loro prima uscita), ma hanno lavorato costantemente per progredire in un panorama musicale che spesso, troppo spesso, tende un po’ a ripetersi.