L’opera, che il compositore romano ha tratto dalla commedia di Goldoni con la complicità del regista Damiano Michieletto, supera lo straniamento strehleriano alla ricerca delle pulsioni primarie di un gruppo di chioggiotti le cui inflessioni dialettali puntano a un universale “umano troppo umano”
Goldoni nostro contemporaneo? Va detto se non altro per giustificare i cartelloni dei teatri italiani, dove ultimamente non si brilla per fantasia nella programmazione e lo spettro del veneziano continua ad aggirarsi con la scusa di un’attualità insindacabile, per forma e contenuto. E in fondo può anche darsi. Anzi, è sicuramente così, ma forse vale la pena non dirlo per partito preso e pensarci almeno un po’. In un articolo livoroso ma non irragionevole uscito qualche giorno fa su “Domani”, Tiziano Scarpa ha ammesso di non poterne più, che per quanto la sua venerazione goldoniana non sarà mai intaccata, la celebrazione allestita dalla Fenice per il sessantesimo compleanno della Marsilio, tutta nel segno di Goldoni, aveva a suo dire qualcosa di “retrivo”. Si riferiva al nuovo lavoro di Giorgio Battistelli, andato in scena quella sera e poi per altre cinque serate, per la verità sempre con successo. L’opera era Le baruffe,che il compositore ha tratto dalla commedia di Goldoni insieme a Damiano Michieletto, cui si deve lo spettacolo con le scene di Paolo Fantin e i costumi di Carla Teti. Sul podio Enrico Calesso.
La piccola polemica intorno a questa recente tappa musicale goldoniana può servire come scusa per ripensare a tutto il Goldoni all’opera, e chiedersi cosa abbiano o non abbiano aggiunto Le baruffe di Battistelli al “Mondo”, vecchio o nuovo che sia, del drammaturgo veneziano, ora che le recite sono terminate. Si parte naturalmente dai suoi libretti, intermezzi, drammi per musica a volte seri, più spesso buffi, scritti in vista di una riforma del teatro non solo di parola ma anche musicale; poi il sodalizio con Galuppi, decenni prima di Mozart e Da Ponte, tra un Gustavo primo re di Svezia e un Mondo della luna poi ripreso dalle mani più celebri e celebrate di Haydn; addirittura una collaborazione con Vivaldi, da cui sembra però non sia rimasto folgorato, per la boccacesca Griselda (ma il primo libretto era di Zeno) che quanto a pazienza e masochismo non ha nulla da invidiare ad Alcesti: una buona figliola come sarà La Cecchina di Piccinni, sempre su libretto goldoniano, da cui deriveranno poi tutte le Amine e Adine ottocentesche, figure innocenti e lacrimevoli, tanto pure quanto diffamate: “Mondella Lucia per virtuosa che tu sia” scriveva Natalia Aspesi. E naturalmente La finta semplice di Mozart, con libretto riadattato da Marco Coltellini, o ancora La gazzetta di Rossini che Giuseppe Palomba ricavò dal Matrimonio per concorso.
Il paradosso, come ricorda Federico Fornoni in un programma di sala della Fenice di qualche anno fa, “Itinerari goldoniani nei libretti otto-novecenteschi”, è che Goldoni non aveva grande fiducia nel teatro musicale. Scriveva il drammaturgo: “Il dramma serio per musica è un genere di teatral componimento di sua natura imperfetto”. E finché parla di opera seria forse non ci stupiamo più di tanto. Invece subito dopo aggiunge: “Molto più imperfetto il dramma buffo esser dee”. Eppure, nonostante le sue perplessità, è stato proprio Goldoni a definire le caratteristiche dell’opera buffa che verrà, culminate nelle Nozze e nel Così mozartiani, con le ombre delle maschere della vecchia commedia dell’arte che si mescolano a personaggi a tutto tondo: sono i prodromi del teatro borghese, in cui il pubblico finalmente riesce a identificarsi per dinamiche, contesti e conflitti tra classi.
Non è difficile immaginare perché poi corsari e trovatori di età romantica, tra Byron, Hugo e Schiller, si siano allontanati dall’influenza goldoniana, dai suoi campielli e botteghe, dalle sue allegre comari tutte prese tra smanie e malinconie. Sarà il nuovo secolo a cambiare le cose, quando lo stesso Puccini prenderà in considerazione un’opera tratta dalla Locandiera e dalle Baruffe stesse, poi mai realizzata. Per una vera rinascita di Goldoni in musica bisogna aspettare le Tre commedie goldoniane di Gian Francesco Malipiero, omaggio nostalgico alla sua città di un compositore che, come spiega Cesare Orselli nel magnifico saggio “Fantasmi goldoniani nel teatro di Malipiero” contenuto nel volume edito da LIM Un pantheon in crisi, stava “liquidando” la commedia dell’arte, avendo individuato nella maschera un “emblema tragico”, un “presagio della sua inarrestabile scomparsa”. Le tre commedie di Goldoni (La bottega del caffè, Sior Todero brontolon e Le baruffe chiozzotte) vengono come scarnificate da Malipiero, al punto che non avrebbe senso ritracciarvi più la trama di partenza: si assiste a una sorta di “teatro a pannelli”, statico e gelido, angosciante come solo il primo Novecento poteva essere.
Tutta un’altra cosa è invece il lavoro di Wolf-Ferrari, ostile sia al verismo sia al classicismo all’italiana, e in cerca piuttosto di una nuova stagione dell’opera buffa con la mente rivolta a Falstaff. Per questo le sue trasposizioni provano a mantenere la leggerezza dell’originale, il realismo dei luoghi, il disegno dei personaggi, la “pittura d’ambiente” tipicamente goldoniana. È curiosa quanta distanza ci sia tra Malipiero e Wolf-Ferrari nonostante le loro evidenti somiglianze: la comune origine veneziana (Wolf-Ferrari da parte di madre), l’ispirazione letteraria, i debutti in Germania (il primo a Darmstadt il secondo a Monaco). Per chiudere questa rassegna, necessariamente incompleta, nella seconda parte del Novecento vanno ricordati almeno Il campiello di Michael Nyman del 1976, opera con cui è nata la Michael Nyman Band e, negli anni novanta, La station thermale di Fabio Vacchi tratta dai Bagni d’Abano.
E a teatro? Riassumendo ai minimi termini, è significativo che il discorso moderno su Goldoni sia stato iniziato dai due più importanti registi italiani del Novecento, Visconti e Strehler, quasi contemporaneamente: il primo con una Locandiera dura e realistica con Rina Morelli, il secondo con l’approccio malinconico e un po’ cechoviano di spettacoli storici come l’Arlecchino, La trilogia della villeggiatura, poi Il campiello e Le baruffe, in più edizioni. Un discorso a parte merita invece la versione dark della Bottega del caffè che Fassbinder scrisse nel 1969. Nel suo Das Kaffehaus emerge forse per la prima volta in maniera esplicita il grottesco goldoniano, uno spunto che in Italia verrà colto per la prima volta dagli “elfi” Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, con uno spettacolo popolato di inquietanti personaggi-zombie che ha fatto scuola.
E proprio l’inquietudine è il portale di accesso di Battistelli e Michieletto al mondo di Goldoni. Per un’ora e quaranta sembra palpabile nelle loro Baruffe la possibilità che la situazione precipiti da un momento all’altro, che la commedia con i suoi dispetti, pettegolezzi e schermaglie si trasformi all’improvviso in tragedia. Cosa che poi non avviene, ma la tensione data da questa minaccia costante sostiene l’intera drammaturgia. È evidente, ad esempio, nel trattamento delle voci. Nel suo saggio contenuto nel bellissimo programma di sala (fatto con Marsilio), Paolo Petazzi spiega come Battistelli, a dispetto della coralità dell’opera, non abbia mai cercato uno stile di conversazione, perché le voci vengono spinte continuamente oltre i propri limiti, anche senza ragione: “Prevale una sorta di nervosa tensione che investe in modi diversi non soltanto i momenti emotivamente più intensi”. Lo spettacolo di Michieletto amplifica questa atmosfera con un coro tutt’altro che amichevole: figuranti e coristi circondano i protagonisti tenendo tra le mani travi di legno che potrebbero colpirli da un momento all’altro, mentre tre grandi ventilatori dominano la scena misurando con la velocità delle loro pale il pericolo della catastrofe.
Insomma, può anche darsi che in queste Baruffe non si avverta sempre l’occhio del futuro, ma assistendo allo spettacolo si ha la conferma che forse oggi non avrebbe più senso affrontare Goldoni con la chiave del “realismo poetico” strehleriano. Sembra non valere più nemmeno il giudizio di Alberto Savinio, secondo cui “le commedie di Goldoni sono quello che sono, ossia dei piccoli quadri di vita familiare e regionale, conchiusi nel loro tempo e nei loro costumi”. Già Strehler le aveva affrontate con la tecnica dello straniamento, con uno sguardo più freddo e brechtiano; poi Fassbinder ne ha scoperto gli insospettabili lati oscuri, che oggi Battistelli sembra recuperare in ottica non tanto grottesca ma, per così dire, antropologica, alla ricerca delle pulsioni originali di un gruppo di chioggiotti il cui Sperchgesang dialettale punta a un universale “umano troppo umano”. E questo è un procedimento sempre contemporaneo.
Foto ©Michele Crosera