Intervista al compositore, maestro del teatro musicale contemporaneo, che ha vinto quest’anno l’ambito premio nella sezione musica. Stasera alla Fenice “Jules Verne”, una delle sue opere più significative
Il teatro può osare musica sperimentale? La Biennale di Venezia dice di sì e per l’edizione numero sessantasei (14-25 settembre) lo stampa nel titolo: Out of Stage, fuori scena. Il teatro sa essere un laboratorio più eccessivo e testardo di tanta “musica pura”. Molti compositori duri e puri, che lo tenevano a distanza, un giorno hanno finito per scrivere “opere”. E questa Biennale 2022, diretta da Lucia Ronchetti, non per la prima volta, ma oggi con intensità speciale, riempie dodici giorni di settembre srotolando esempi in cui la musica – acustica, elettronica, concreta – s’inventa un dialogo con la scena, il corpo, l’immagine.
Questa sera, mercoledì 14, alla Fenice Giorgio Battistelli riprende un suo classico, Jules Verne, “Immaginazione in forma di spettacolo per trio di percussioni, tre voci, tromba, pianoforte”. Domani, alle Tese dell’Arsenale, si assaggiano altre forme di teatro sperimentale con pezzi di Andrei Adamek e Rino Murakami. Venerdì 16 (replica il sabato) al Teatro Piccolo Arsenale va in scena The Return, rielaborazione creativa di Simon Steen-Andersen sul Ritorno di Ulisse in Patria di Monteverdi, maestro dei maestri del teatro di ogni tempo. Il 19, al Goldoni, Michel Van der Aa propone The Book of Water, teatro da camera su un tema di ecologia globale. Mercoledì 21, nella Basilica di San Marco, Helena Tulve, compositrice estone da tenere in memoria, fa risuonare certe sue Visions a immagine e somiglianza dei cori spezzati con cui i maestri della Cappella Marciana sfidavano lo spazio della più orientale delle chiese d’occidente. E il 25, in chiusura, all’Arsenale, riappare quel Experimentum Mundi di Battistelli che del teatro musicale contemporaneo è un emblema e ha girato il mondo. Tutto sembra ruotare attorno a Giorgio Battistelli. Ovvio: è lui il Leone d’oro 2022.
Battistelli, della Biennale Musica sei stato direttore e Venezia ha sempre accolto a braccia aperte i tuoi lavori. Questo leone che cos’è? Un vertice? Un sigillo?
Non direi un vertice. Certo, un premio che ti fa riflettere. Quando il presidente della Biennale Roberto Cicutto me l’ha annunciato, l’istinto è stato di voltarmi indietro e riguardare quel che ho fatto, ma non in senso conclusivo. È stato riconosciuto un percorso e ora, forse, è il momento di cambiare. Non sono un musicista chiuso nel proprio stile. Per natura sono culturalmente eterogeneo, attenzione non eclettico, e posso muovermi in diverse direzioni.
Molte proposte di Out of Stage sembrano guardare a Battistelli come a un modello.
Jules Verne ed Experimentum Mundi sono due lavori – per decisione della Biennale – che risalgono a molto tempo addietro, riflessioni sul teatro strumentale che tocca i confini del teatro musicale. Una sperimentazione che coinvolgeva molto Stockhausen e Kagel, con i quali studiai nel 1975 alla Musikhochschule di Colonia e con i quali ho condiviso un periodo formativo molto importante. Mi hanno insegnato a pormi la domanda principale: come andare oltre la linea della tradizione. Comunque sì, è incredibile: Experimentum mundi compie 41 anni e Jules Verne 38! Ho un legame affettivo con Experimentum, perché lì ho messo in scena il paesino dove sono nato, nel basso Lazio. Facevo le medie, uscivo da casa con mia madre. Vedevo quegli artigiani al lavoro. C’era un lattoniere davanti a scuola che batteva sul rame, piegava conche per vasi e secchielli per l’acqua. Poi, un dicembre, non lo vidi più. Era morto. Un mondo finiva. Diversi anni dopo, nel ’79-80, mi dissi che volevo fare qualcosa per queste realtà in estinzione. Pensai a Duchamp, alle sue decontestualizzazioni del reale e lo usai come punto di partenza, ma realizzando un lavoro molto dettagliato nell’appropriazione di gesti e suoni. Gli strumenti erano quelli appresi da Stockhausen, Kagel, Schnebel, senza dimenticare Boulez. Così Experimentum Mundi finì per rivelarsi una combinazione non dico di primitivo o di arcaico, ma di artigianale, e insieme di molto intellettuale. Esplorare i confini fra teatro strumentale e teatro musicale metteva in coesione mondi molto distanti.
Jules Verne è in nuova versione?
No, nulla ho cambiato. Di nuovo c’è solo il fatto che ne curo la regia per la prima volta, anche se la gestualità degli esecutori ha molto di vincolante. Regia obbligata perché soltanto tre personaggi stanno in scena, e per compiere atti performativi ben previsti. È un lavoro che ti porta indietro negli anni, non come nostalgia, ma perché affronta problemi ancora attuali: in che modo uscire dal melodramma tradizionale, quale rapporto instaurare con la voce impostata, se esista una drammaturgia nelle forme musicali… Suona curioso ricevere un riconoscimento così importante e far ascoltare due lavori che hanno quasi cinquant’anni. Eppure il teatro musicale gira attorno alle stesse problematiche ancora adesso.
Questa Biennale riafferma una verità molto osteggiata nel secondo dopoguerra: il teatro, che qualcuno voleva morto, è capace di forme linguistiche estreme e di tante se non tutte le ricerche possibili.
Sì ma questo era un problema che aveva posto prima ancora Adorno. L’impurità di cui si è occupato Dahlaus nei suoi saggi è ancora un aspetto non risolto che mi interessa di più sotto il profilo culturale e sociologico. Molti continuano a odiare il teatro e a lavorare esclusivamente sulla sperimentazione pura. Il problema mi coinvolge perché, come dice Cacciari, il suono ha forse perso il suo incanto e ci siamo risolti all’ascolto dell’immagine perché più rassicurante.
Non siamo più capaci di rinunciare alle sollecitazioni visive?
Qualcosa che lo spiega mi è capitato molti anni fa, gli ultimi del mio insegnamento in conservatorio. Venni a Milano ad ascoltare un compositore italiano che presentava un’opera sua alla Scala. Cercavo nuove sollecitazioni per i miei allievi. Chiesi alla Ricordi una registrazione. Era un audio. Dopo nemmeno quindici minuti sulle facce di tutti e venticinque i ragazzi si dipinse una noia mortale. La musica che in teatro mi aveva entusiasmato, da sola sembrava affetta da un pensiero debole. Mi resi conto, riascoltandola insieme a loro, quanto l’impianto scenico avesse sorretto l’opera. La musica non aveva sufficiente forza, ma grazie a un lavoro sullo spazio e sull’immagine l’acquistava.
Venezia per Giorgio Battistelli non è una città come le altre.
È un grande teatro e alla Fenice ho presentato diversi miei lavori importanti. Ora ci torno con un’opera di 40 anni fa e così riprendiamo il tema del Leone d’oro, che non sento come elemento distaccato. Fa parte di un percorso non orizzontale ma verticale, dove Jules Verne ed Experimentum Mundi possono convivere con Riccardo III e le Baruffe, fra loro diametralmente opposte, legate da un’estetica comune. Helga De la Motte, musicologa con cui dialogherò nella cerimonia di consegna del premio, insieme a Ivanka Stoianova sostiene un’idea in cui mi riconosco: non ci sono tante opere di Battistelli, ma un’unica opera, una dentro l’altra. La continuazione di un’opera che si tiene in contatto con la realtà. Mi piace pensare al mio teatro come relazione con la società.
Nella Cappella Marciana e nei suoi teatri, con i Gabrieli e con Monteverdi si può dire che la modernità sia stata seminata qui a Venezia, cinque secoli fa.
Monteverdi è uno dei miei maestri. Il concetto del ritmo concitato è il frutto di uno studio molto attento e ci sono sempre momenti di ritmo concitato nei miei lavori sinfonici. Devo molto a Monteverdi, come devo molto, con intensità diverse, a Henze, a Ligeti, a Kagel, a Stockhausen. Ero ragazzino: da ognuno ho tratto aperture fondamentali. E il rapporto con Berio… tutti mondi diversi. Ma la diversità non mi ha mai creato contraddizione. Ricordo la prima esecuzione di Experimentum Mundi alla Alte Oper di Francoforte. È la prima volta che lo racconto, non per vanteria. Mi avvio verso l’uscita. Il guardiano mi ferma: c’è una busta per lei. Voluminosa. Era una partitura di Stockhausen, che era in teatro e aveva assistito all’opera. Con una dedica: A Giorgio Battistelli. Ci unisce una poetica e uno studio fondamentale per il nostro lavoro di compositori. Al di là della naturale soddisfazione, lo stupore. Ti viene in mente qualcuno con quella sensibilità? Cose di altri tempi.
E ben prima che Stockhausen si desse al teatro.
Certo, prima di Aus Licht: ci siamo conosciuti nel ‘75. Allora Stockhausen era concentrato su un lavoro più metafisico. Ma è sempre stato pronto a mettersi in discussione. Come Luigi Nono: fino al Gran sole un’estetica, con Prometeo l’opposta. Stockhausen è tra i padri dello strutturalismo e della serialità; poi scrive un’opera con 40 minuti di corno di bassetto, una quantità di elementi simbolici. alcune cose ti sembrano Kitsch, altre funzionano alla perfezione. Ci sono compositori che per tutta la vita scrivono sempre nello stesso modo. Ma ascoltare Stockhausen, Kagel, Ligeti o Berio è sempre stata per me un’avventura.
Franco Battiato aveva inventato un paradosso: chiudi un compositore d’avanguardia in prigione e prometti di liberarlo solo quando avrà scritto un tema o una melodia di successo. Non uscirà a vita. Non è il tuo caso.
(Risata) Sicuramente non avrò l’ergastolo. Magari qualche giorno di fermo. A proposito: anche Berio e Ligeti hanno scritto temi e melodie. Ma c’era la paura, lo spettro adorniano: se la musica piace vuol dire che qualcosa non va. Ma il mondo è cambiato. Per Giulio Cesare all’Opera di Roma sono andato nelle scuole. Ho incontrato forse trecento studenti. Dopo un bombardamento di domande, una ho chiesto di farla io. Che cosa vi disturba o vi allontana dall’opera? Tutti e 300 mi hanno dato la stessa risposta. Due problemi. Il primo, le durate. Non resistono alle lunghezze. Il secondo: stare seduti. Hanno bisogno di un ascolto segmentato. La loro è una concentrazione intermittente. Vorrebbero entrare e uscire dall’opera come noi in fondo facciamo a una mostra d’arte. Superficialità? Forse ci sbagliamo noi.
Sul tempo e sulla fisicità dell’ascolto hai fatto di recente qualche provocazione.
Sì, ma sono stato frainteso. Non ho mai detto di accorciare le opere o di usare le forbici. Mi chiedo solo se non sia possibile inventare qualche forma di ascolto diversa da quella creata nell’Ottocento. Andiamo incontro alle diversità dei giovani, prima di definirle sbagliate, prima di pensare che solo noi siamo nel giusto. Fino a qualche anno fa mettere in cartellone un atto di un’opera era una dissacrazione. Ora in Germania si fa. Nella stagione dell’orchestra Haydn di Bolzano ho provato a concentrare le durate e a cambiare gli orari: una sinfonia di Mendelssohn alle 13, poi alle 19. Ho intercettato un pubblico che non era mai venuto in auditorium. Leggevo una notizia agghiacciante: in Perù, nei teatri sguarniti, hanno cominciato a mettere dei manichini. A Barcellona, delle piante. Vogliamo ridurci a quello? Non le forbici, ma forme di ascolto diverse e frazionate, sì. Mio zio era Trilussa, provoco.
In copertina Giorgio Battistelli (foto © Fabrizio Sansoni)