L’antologia “The Beat Book” e “Gasoline” di Gregory Corso per rivivere la Beat Generation a partire da quella sera del 7 ottobre 1955 quando, per la prima volta, Allen Ginsberg leggeva il suo poemetto Howl, al 3119 di Fillmore Street, San Francisco.
“Ho seguito l’intera gang di poeti urlanti al reading alla Six Gallery quella notte, che era, fra le altre cose importanti, la notte della nascita del San Francisco Poetry Renaissance. C’erano tutti. Fu una notte folle. Io sono quello che ha fatto svoltare le cose andando in giro raccogliendo monete e quarti di dollaro da un pubblico poveraccio e tornando con tre grandi galloni di birra cosicché per le 11, quando Ginsberg stava leggendo Howl, tutti quanti urlavano “Go! Go! Go!” (come in una jam session) e il vecchio Kenneth Rexroth, il padre della scena poetica di San Francisco, versava lacrime di gioia.”
Così Jack Kerouac raccontava la serata del 7 ottobre 1955 quando, per la prima volta, Allen Ginsberg leggeva il suo poemetto Howl, al 3119 di Fillmore Street, San Francisco.
Oltre a Ginsberg, sul quel palco, quella sera, c’erano Philip Lamantia, Michael McClure, Gary Snyder, Philip Whalen, tutti giovani poeti che iniziavano a stravolgere la poesia americana. Molti altri erano fra il pubblico. Di sicuro fu una serata storica per quella che è passata alla storia come Beat Generation. Tutto quello che poi è stata la letteratura beat era già lì. Oggi questo clima possiamo riviverlo leggendo The Beat Book (a cura di Anne Waldman, trad. ita. a cura di Luca Fontana per Il Saggiatore) che raccoglie i rappresentati più significativi di questa generazione dando largo spazio anche ai meno famosi, restituendo un ritratto davvero completo di questo movimento d’avanguardia. Dico movimento perché a leggere The Beat Book si nota come questi autori davvero si muovessero su un terreno comune, con una codice linguistico uniforme, un immaginario condiviso, ideali e ideologie, persino un’affine sentire spirituale.
Soprattutto: a leggere questi testi (ad essere antologizzate non sono solamente le poesie, ma anche lettere, testi teorici come il famoso pezzo sul cut-up di Burroughs, testi narrativi, estratti di romanzi di Kerouac e Burroughs: da Per strada a Pasto nudo e crudo) si ha davvero l’impressione di stare di fronte ad un’opera unica ed unitaria cui hanno contribuito, in maniera diversa, i vari scrittori, che spesso sono anche personaggi delle liriche. Amici nella vita, si ritrovano, nella scrittura, con una varia umanità: dai modelli letterari (William Carlos Williams, alcuni surrealisti francesi, Walt Whitman, Apollinaire, etc) ai relitti della società: ladri, ubriaconi, prostitute, matti, barboni. E poi divinità orientali, miti greci, tutto convive in questi brani che nascono dal felice connubio di autobiografismo e deformazione totale. Eppure questi testi così onirici, a volte grotteschi, surreali persino, spesso non fanno altro che presentarci cose quotidiane, addirittura banali. Tutta la realtà è dentro questo caleidoscopio: da Walt Disney a Marlene Dietrich, dal Baseball alla musica jazz, a Mandrake, a Gandhi, al Buddha…
Il primo autore antologizzato dalla Waldman è Gregory Corso. Quest’anno Corso è tornato in libreria anche grazie ai tipi di minimumfax che ci hanno consegnato una nuova traduzione di Gasoline a cura di Damiano Abeni, e arricchita da una prefazione di Fernanda Pivano e un’introduzione di Allen Ginsberg, che considera Corso il più grande poeta americano: “Probabilmente Corso è il più grande poeta d’America e sta facendo la fame in Europa”. E non è da meno la Pivano: “Con tutta la sua insolenza e la sua strafottenza, con tutte le sue sregolatezze e la sua imprevedibilità, o forse proprio per questo Gregory Corso si presenta come uno dei più grandi poeti americani contemporanei”. Il libro si apre su una dedica a dei carcerati con i quali Corso passò un periodo di reclusione quando aveva diciassette anni: già da qui si mette in luce la matrice autobiografica di questa poesia, che spesso torna indietro ai luoghi di un’infanzia difficile e, per questo, vista attraverso la lente deformante dell’invenzione linguistica. Il mondo di queste poesie è popolato da residui della società, spesso metamorfizzati, come nei sogni – o negli incubi.
Anche i luoghi visitati non sono mai dipinti naturalisticamente: Rotterdam è una visione, appunto, nella quale si sovrappongono la città del passato, della guerra, e la città del presente (il 1957). Corso “piscia” sulla realtà, per dirlo ancora con Ginsberg. Le sue poesie sono come giocattoli perché il poeta gioca con le parole. Eppure è un gioco che non fa ridere. L’inventiva di Corso nasconde, sotto di sé, il rovescio del gioco. Ma la disperazione raramente è urlata:
“Sei venuta e hai cambiato i tuoi pollici in caramelle
Ti ho rubata e ti ho mangiata
E coi piedi ho schiacciato i tuoi incarti
Lungo mille strade
Mi hai fatto male ai denti
Mi hai fatto venire i foruncoli in faccia
Non hai mai fatto granché bene alla salute
Non sei mai stata troppo vitaminica
Sporcavi le mani
E dato che eri più appiccicosa della colla
Anche a lavarmi non andavi mai via
Hai macchiato qualcosa in modo orribile”
Ritroviamo qui molti elementi della poesia di Corso: la ripetizione ad elenco, la situazione infantile, il poeta è come un bambino che pasticcia con le caramelle. L’uso di immagini banali e quotidiane per esprimere, in realtà, una situazione molto più complessa. Probabilmente è una donna ad essere venuta e ad aver incasinato la vita del poeta, ad avergli provato tanto dolore, ad essersi “appiccicata” così irrimediabilmente a lui. Ma probabilmente ad essere venuta così tragicamente è anche la Poesia che compare proprio nell’esergo del libro: “Viene, sul serio, immensa e avvolta in stracci zuppi di benzina e pezzi di fil di ferro e chiodi ritorti: arrivista tenebrosa, da un fiume di tenebra interiore…”
Abbiamo detto che Corso apre l’antologia edita da Il Saggiatore, con molti testi tratti proprio da Gasoline. Seguono poi, forse, i nomi più famosi: Jack Kerouac, Neal Cassady, Allen Ginsberg, Peter Orlovsky. Abbiamo poi Burroughs, Wieners, Ferlinghetti, Snyder e Diane Di Prima, Baraka, Joanne Kyger, Lew Welch, Leonore Kandel, Philip Whalen, Bob Kaufman e Michael McClure.
Ma chi sono questi Beat e perché sono beat? Sono beat perché utilizzano un linguaggio da strada, quindi esausto, che ha toccato il fondo del mondo. Beat voleva dire anche – come dice Allen Ginsberg nella Premessa a The beat book – “finito, compiuto, nella notte buia dell’anima o nella nebbia del non sapere. Poteva voler dire aperto, nel senso whitmaniano di apertura, equivalente a umiltà”. Kerouac ne sottolineava il nesso con parole come beatitudine e beatifico: “la necessaria beatness o oscurità che precede l’aprirsi alla luce, al superamento dell’io, al dare spazio all’illuminazione religiosa”.
E cosa volevano? L’indagine sulla natura della coscienza, la liberazione sessuale, in particolare quella gay. Volevano un antifascismo cosmico, un atteggiamento pacifico, non violento in politica; il multiculturalismo, l’assorbimento della cultura nera nella letteratura e nella musica. Volevano sperimentare le sostanze psichedeliche come strumenti educativi; volevano un atteggiamento più realistico verso la legislazione sulla droga, con il riconoscimento che il tabacco e l’alcol sono più distruttivi per l’organismo di tutte le altre droghe, eccetto la cocaina. Volevano, la rivalutazione dell’eros, come atteggiamento sacramentale verso la gioia sessuale.
In sintesi: volevano rinnovare l’America passando per il rinnovamento della sua letteratura. E non sono poche, infatti, le poesie esplicitamente politiche, si pensi a Bomb di Corso.
Scrive LeRoi Jones:
“Il ruolo dell’Artista Nero in America è contribuire alla distruzione dell’America quale lui la conosce. Il suo ruolo è riferire e riflettere in modo così preciso la natura della società e di se stesso in quella società, che gli altri uomini saranno animati dall’esattezza della sua rappresentazione e, se sono uomini neri, saranno animati a farsi forti, avendo visto la propria forza, e la propria debolezza; e se sono uomini bianchi, tremeranno, malediranno e impazziranno, perché saranno costretti a pascersi della sozzura del male che hanno fatto”. (Con-stato-azione)
Oppure Lenore Kandel in Primavera ’61:
“paese? Abbiam perso il nostro orgoglio
Di nazione nessun uomo può morire per degli slogan
Così come sono morti per la libertà
Coloro che si son congelati le balle a Valley Forge
(14 sotto zero) han pisciato sangue e pianto di dolore
(pianto) pianto un uomo arruolato di propria volontà
a combattere per certi diritti”
O ancora John Wieners in Figli della classe operaia:
“Hanno prodotto figli con fobie, manie, depressioni,
poco si preoccupavano delle proprie attitudini, e tenevan d’occhio
gli altri, una qualche occasione di tirare avanti
Sì, la vita è stata dura per loro, molto più dura che per un tron-
fio miliardario, che ancora vive dei
loro soldi duramente guadagnati.
[…] Io sono testimone
non della visione di Whitman, ma dei
dormitori dei poveri, dei manicomi di città pazze e delle co-
de per il lavoro. Sì, io sono testimone non della
bontà di Dio, ma del suo maggiore o minor disprezzo”.
Questa rivolta allo status quo avviene anche attraverso l’irrisione del linguaggio della classe media americana (e quindi irrisione di quella visione del mondo). Ancora LeRoi Jones: “Che posso dire? / Meglio aver amato e perso / Che mettere il linoleum in salotto?”. Accanto a questa ironia troviamo tutte le regole della tradizione poetica fatte esplodere (e sono note le accuse – anche legali – dei grigi accademici dell’America-da-bene), fino alla messa su pagina della gioia dell’atto carnale senza nessuna reticenza. Philip Whalen:
“Mr. Edward Wyamn (63 anni)
sbuffa vapore su per il sentiero davanti a noi tutti
Gemendo, «I miei poveri piedi fan male, la mia schiena
È stanca e ho il cazzo duro»”
(da Di guardia sulla Sourdough Mountain)
Ma soprattutto Michael McClure, per esempio (Alla chiavata: un’ode):
“FIGURE ENORMI CHE CHIAVANO FIGURE ENORMI
CHIAVANO
FIGURE ENORMI CHIAVANO SU SCOGLI SU
RIVE NEL FIUME NERO
Dentro coi campi senza proporzione, prati neri
Di trifoglio. NON PIÙ DIMENSIONI! Nonsognando e
Vasto come un sogno. Qui l’amore s’INVENTA. L’enorme
CAZZO
s’infila nel sogno molle. Non sogno. Nella figa,
LÌ! Nella bocca. Figure che si scivolano
Addosso. Il dondolio, il cavallar stringendosi,
CON-TENENDOSI
LE FIGURE SI UNISCONO CORPI A CORPI
Si uniscono le pareti di pelle! Braccio con braccio
abbraccia. […]
è noi che ci tocchiamo. È
la sala vasta che abitiamo, Rannichiandoci,
ergendoci. Cazzo in roseonera carne. Lingua
dentro rosa carne. Sborra sui tuoi seni, Sborra
sulla tua lingua, sborra nella tua tana
caverna amore lumaca fiato strano braccio linea […]”
Si vede come questi testi abbiano spesso un ritmo fluviale: sono una corrente che trascina tutto quello che incontra nel suo cammino, e non si ferma mai. Spesso questo ritmo diventa allucinatorio per riprodurre l’effetto delle sostanze stupefacenti e, quasi sempre, gli autori sono sotto l’effetto di droghe per riprodurre realisticamente (?) questi effetti. È il caso del Poema del peyote sempre di McClure:
“STOMALSTOMACO!!!
Non c’è tempo. Sono vistato da un uomo
che è il dio delle volpi
c’è terra sotto le unghie della sua zampa
fresca della tana.
Sorridiamo l’uno all’altro riconoscendoci.
Io sono libero dal Temo. Io accetto senza esaltarmi
– un fatto
Chiudendo gli occhi ci son lampi di luce.
Gli occhi non mi vanno a fuoco a ma ballano. Vedo che ho tre piedi.
Vedo sette posti in una volta!
Il pavimento è in pendio. Il soffitto in salita
Le cose si squagliano
L’una nell’latra. Lampi di luce
e fusioni di cose. Aspetto
di vedere, se è cosa fisica passa.
Sono una mesa di tempo e spazio
!STOMAL-CO!”
Accanto alla visione psichedelica, al disfemismo del sesso, si trovano, però, anche testi che si lasciano andare ad un più pacato dolore, pur nel consueto stile beat. Come il lamento per la morte della madre di Ginsberg in Kaddish:
“Oh mamma
addio
con una scarpa nera lunga
addio
col Partito Comunista e una calza smagliata
addio
coi tuoi sei peli scuri sul porro che hai sul seno
addio
col tuo vestito vecchio e una lunga barba nera attorno alla vagina
addio
con la tua pancia sporgente
con la tua paura di Hitler
con la tua bocca di brutti racconti brevi
con le tue dita di mandolini lagnosi
con la tua pancia di scioperi e ciminiere
col tuo mento di trotsky e Guerra di Spagna
con la tua voce che canta per il declino degli operai ultrasconfitti
col tuo naso dell’aver chiavato male con il tuo naso dell’odor di sottaceti a
Newark
coi tuoi occhi
coi tuoi occhi di Russia
coi tuoi occhi di neanche un soldo
[…]
coi tuoi occhi di India che muore di fame
coi tuoi occhi pisciando nel parco
coi tuoi occhi di America in forte ribasso
[…]
coi tuoi occhi fuggendo nuda dall’appartamento urlando nell’ingresso
coi tuoi occhi portata via dai poliziotti e messa in ambulanza
coi tuoi occhi legata al tavolo operatorio
coi tuoi occhi con il pancreas tolto
coi tuoi occhi d’appendice operata
coi tuoi occhi di ovaie tolte
coi tuoi occhi di shock
coi tuoi occhi di lobotomia
coi tuoi occhi di divorzio
coi tuoi occhi d’infarto
coi tuoi occhi sola
coi tuoi occhi
coi tuoi occhi
con la Morte piena di Fiori”
In questo Beat Book, insomma, c’è davvero di tutto e, leggendolo, si ha davvero l’impressione di viverla la Beat Generation, di conoscerli questi strani artisti beat. Riesce a portarci in quei reading, pieni di fumo e di alcol ad ascoltare Ginsberg, Kerouack, Ferlinghetti, Orlosky e gli altri. Dicevo prima che si ha come l’impressione che tutte le opere beat siano, in realtà, un unico, grande, livre, il libro di una generazione. E, infatti, il testo teorico La poesia non è mai un compromesso di Lenore Kandell in cui la poetessa riflette sulla propria poetica, sembra, in realtà, parlare di ognuno di questi poeti e artisti, singolarmente e collettivamente:
“La poesia non è mai un compromesso. È nella manifestazione/traduzione di una visione, un’illuminazione, un’esperienza. Se scendi a compromessi diventi un profeta cieco. […] lo scopo è quello di accrescere la consapevolezza […]. Ciò richiede onestà nell’intimo del poeta e della poesia. Un’onestà a volte gioiosa a volte dolorosa. […] È un piacere. Un piacere così grande che ti rende capace di uscire dal tuo io privato e di partecipare della grazia dell’universo. Tutto ciò che è lingua è linguaggio poetico e se la parola richiesta dal poeta non esiste nella lingua a lui nota sta allora a lui scoprirla. Gli eufemismi scelti per paura sono un patto con l’ipocrisia e nell’immediato distruggeranno la poesia […].
La poesia è viva perché è un medium di visione ed esperienza.
Non è necessariamente gradevole.
Non è necessariamente innocua.”