Dal 15 al 21 settembre arriva nelle sale cinematografiche “The Beatles: Eight Days a Week,The Touring Year”, documentario di Ron Howard sulla mitica band di Liverpool
Raccontare la storia dei Beatles è come discutere del Watergate o della seconda guerra mondiale, dei movimenti per i diritti civili o il Vietnam: contiene un milione di piccole storie, numerose testimonianze e molteplici punti di vista. Nel documentario curato da Ron Howard, Eight Days a Week – The Touring Years, ci si concentra su un determinato periodo storico della fantastica favola dei Fab Four, creando una storia a se stante. Gli avvenimenti presi in esame sono quei quattro anni di tour, dal 1962 al 1966, “matto e disperatissimo” che li porterà a sorvolare tutto il mondo, dalla Gran Bretagna alla Germania, dagli Stati Uniti al Giappone. Anni che li formarono ma che al tempo stesso li distrussero.
Eight Days a Week rimuove quell’aurea mitologica che da sempre è legata alla figura dei Beatles, restituendoci la figura di quattro ragazzi appena ventenni, della working class, che fecero urlare il mondo intero. Quelle urla, muro di isteria sessualizzata firma della Beatlemania, vengono sostituite, all’interno del documentario, da ciò che la maggior parte della band e i propri fan avrebbero potuto sentire durante i loro live, la musica stessa.
Un viaggio dove si è catapultati nella gigantesca bolla della loro fama. Un’esperienza che John, Paul, George e Ringo condivisero come quattro fratelli, aiutandosi soprattutto nei momenti di sconforto, e che probabilmente solamente loro compresero.
Un altro elemento chiave per comprendere il documentario è la testimonianza del giornalista americano Larry Kane. Quando aveva 21 anni, inviando a Brian Epstein, manager dei Beatles, una domanda per intervistare la band, fu invitato direttamente a seguire i Beatles per tutto il tour statunitense, il primo tour negli stadi della storia, diventandone il reporter ufficiale.
Il racconto di Larry Kane fu molto avvincente, seguito da ogni ragazzino statunitense, poiché collegava il fantastico mondo dei Beatles, con i loro completi e stivaletti, ideati dal sarto di fiducia di Brian Epstein, nella loro quotidianità.
Ron Howard e il suo team, coadiuvati dal produttore inglese Nigel Sinclair, hanno messo insieme un team di archivisti, ricercatori, assistenti montatori e restauratori che hanno lavorato al documentario per oltre tre anni, durante i quali si alternavano giorno e notte. Riuscire a cucire assieme oltre 2000 elementi tra filmati e fotografie, molti dei quali girati 50 anni fa principalmente da fan, rivela Sinclair: “è stata un’impresa enorme trovare, montare e aggiustare il colore di tutto quel materiale, gran parte del quale è inedito o estremamente raro”. Tra cui l’esibizione di I Saw Her Standing There al Washington DC Coliseum nel 1964, il live in Giappone al Budokan, in Australia e allo Shea Stadium.
Ovviamente, in molti casi i filmati amatoriali dei concerti avevano una qualità audio alquanto pessima, come rumore di fondo, applausi e urla, e la musica era pressoché inesistente.
Giles Martin, figlio del compianto George, e il resto del dipartimento del suono hanno utilizzato ogni tecnologia disponibile per ottenere la migliore qualità audio possibile abbassando e isolando le urla senza dover ricorrere alla campionatura o all’aggiunta di suoni nuovi. Il tecnico del suono premio Oscar, Chris Jenkins, si è occupato di supervisionare il missaggio finale.
Come spiega anche Giles Martin: “A essere onesti, credo che con questo film abbiamo raggiunto un livello grazie al quale è quasi meglio che essere stati lì. In materia di tecnologia credo che, come nella tradizione dei Beatles e di mio padre, abbiamo superato qualsiasi frontiera possibile per ottenere quello che volevamo”.
Il dietro le quinte dei numerosi concerti, girato dai pluripremiati fratelli Maysles, offre uno sguardo inedito sui giovani ragazzi di Liverpool, in un momento dove sembrano ancora divertirsi nella follia del loro esplosivo successo. In particolar modo c’è una scena dove la band, in uno dei pochi momenti di relax, fa baldoria nella stanza d’albergo e si picchia davanti la videocamera. Sia Paul che Ringo si accorgono di essere ripresi ed iniziano ad urlare: “me, no me, riprendi me, me! Televisione!!!”, dando l’opportunità di sbirciare nella loro sorprende e ironica personalità.
A fare da cornice alle varie testimonianze audio-video, in Eight Days a Week – The Touring Years, sono state raccolte interviste originali di Paul McCartney e Ringo Starr, in cui ci regalano racconti sinceri e schietti dei tumultuosi giorni in tour. Grazie alla distanza dei 50 anni trascorsi, Paul e Ringo sono riusciti ad analizzare il loro periodo con i Beatles da una prospettiva completamente nuova. Come dice lo stesso Ron Howard: “Credo che abbiano assaporato un rinnovato apprezzamento per quello che è stata la band e per quello che hanno significato. Entrambi hanno ottenuto tanto dopo allora, tanta acqua è passata sotto i ponti, hanno vissuto una vita intensa ed hanno perso due amici….anche per questo si sono impegnati molto a scavare nei loro ricordi, che per molto tempo avevano rilegato in un angolo della mente”.
Tra le rivelazioni più importanti del film, emerge sicuramente, la posizione che il gruppo prese sul tema della segregazione razziale in occasione del tour nel sud degli Stati Uniti, nel 1964. Il rifiuto dei Beatles di suonare in qualsiasi luogo, che prevedesse la segregazione obbligò il Gator Bowl a Jacksonville, in Florida, a cambiare la sua politica sui posti a sedere.
Lo stesso McCartney ricorda come: “L’idea che potessimo suonare davanti ad un pubblico dove c’erano persone di colore da una parte e bianchi dall’altra era ridicola secondo noi. Apprezzo molto quando il documentario fa vedere che lo mettemmo nel nostro contratto: Non suoneremo in un luogo che prevede la segregazione”. E a testimoniare quella storica serata fu presente la storica e professoressa Kitty Oliver, intervistata all’interno del documentario.
Ovviamente, proprio come qualsiasi altro fan, anche Ron Howard ha voluto raccontare i propri ricordi e legami personali con la band, rendendo il progetto ancora più speciale.
Il registra premio Oscar non ha mai assistito ad una performance dal vivo dei Beatles, ma ha dei ricordi adolescenziali di come lo abbiano influenzato. “Vidi i Beatles all’Ed Sullivan Show, come gran parte dell’America, agli inizi di Febbraio del 1964. Il mio compleanno è il primo Marzo, perciò per il mio decimo compleanno, chiesi ai miei genitori di comprarmi la parrucca e gli stivaletti alla Beatles. Non riuscirono a trovare gli stivaletti ma ricevetti la parrucca che indossai orgoglioso per tutta la festa. Poi, circa tre anni dopo, una mia insegnante di origini inglesi iniziò a usare le canzoni dei Beatles per insegnare alla classe a comprende la poesia. È stata la prima persona che conoscevo ad elevare quello che stavano facendo al livello dei classici”.
Una delle domande che spesso ci si pone sulla storia e musica dei Beatles è come riesca, dopo oltre 50 anni, a risuonare ancora oggi, sia nei giovani che nelle persone che vissero da protagonisti quegli anni. Le nuove generazioni conoscono sì le loro canzoni, e conoscono la loro grandissima band, ma non hanno idea delle circostanze in cui nacquero i loro brani.
I Beatles si sono fatti portavoce di un mondo che scelse di gridare insieme a loro. E quel senso di amore violento, che i fan testimoniavano nei loro confronti, non fu solo fanatismo, ma un messaggio di rivoluzione per una generazione che per molto tempo aveva taciuto.