Milano e i suoi architetti: Melchiorre Bega, grattacieli, transatlantici e autogrill

In Arte

Era il 2012 e il collettivo MACAO occupò la Torre Galfa suscitando nei milanesi interesse, entusiasmi e discussioni a non finire. Pochi, però, conoscono la storia di quell’edificio e del suo geniale artefice: Melchiorre Bega. L’architetto che ha sfidato Gio Ponti in una competizione a base di calcestruzzo armato per il dominio della skyline meneghina; e ha curato gli arredi interni del panfilo Diana; e ha progettato il più iconico degli autogrill a ponte; e molto altro. Questo è il suo ritratto.

 

La prima amarezza? Un edificio di ottanta metri che non mi hanno lasciato costruire. La prima soddisfazione? Uno di cento metri. Il prossimo? Duecento metri, a Milano.

Resto del Carlino, 19 febbraio 1972

Ha legato il suo nome a uno dei più eleganti grattacieli di Milano ma fu molto di più. Bolognese di nascita, Melchiorre Bega era stato un protagonista dell’architettura d’interni tra le due Guerre ma fu il suo arrivo a Milano, negli anni Quaranta, a sancire l’inizio della fase più fortunata della sua carriera e sarà proprio nella capitale lombarda che vedranno la luce alcune delle sue opere più significative. La collaborazione con la meneghina Motta lo portò a disegnare una delle stazioni di servizio a ponte più iconiche del boom economico (quella di Cantagallo). E il suo studio di architettura, un’azienda a gestione famigliare, si impose tra gli anni Cinquanta e Sessanta per lo stile sobrio e intelligente, in tutta Italia e all’estero.

Ma andiamo con ordine: la carriera di architetto di Bega non nasce da una vocazione maturata in tenera età ma è piuttosto l’esito di una gioventù contesa tra tanti interessi diversi. «Non recitavo soltanto, ma dipingevo anche. Ed estesi le mie collaborazioni giornalistiche alle critiche d’arte. […] Da giovane, comunque, feci proprio di tutto, persino il presidente di una società calcistica bolognese, io che di sport non me ne intendo e no so nemmeno nuotare». Con queste parole l’architetto settantaquattrenne si raccontava a Remo Pascucci, per una rivista del settore siderurgico. Fu infatti nelle strutture in acciaio che Melchiorre Bega trovò l’espressione più naturale del suo linguaggio architettonico, sviluppatosi tra le costole metalliche dei grandi transatlantici. Vinse infatti il concorso per l’allestimento del “Conte di Savoia”, nave sorella del mitico “Rex”. L’esperienza in ambito navale si concluse tragicamente con la progettazione degli interni del Diana, imbarcazione concepita per essere il panfilo personale di Mussolini ma poi impiegata (e affondata) durante la seconda guerra mondiale.

1965, La torre Galfa, a sinistra, e il grattacielo Pirelli (Foto Paolo Monti)
1965, La torre Galfa, a sinistra, e il grattacielo Pirelli (Foto Paolo Monti)

Trasferitosi a Milano, Bega successe a Gio Ponti come direttore della rivista «Domus». Mantenne l’incarico per pochi anni e dopo i bombardamenti fu tra i protagonisti della ricostruzione. Ma le carriere dei due maestri si sarebbero incrociate nuovamente anni più tardi, questa volta sul tetto di Milano.

«Caro Bega, ancora ti voglio felicitare per il tuo “Galfa”. Ci sono moltissime cose che ti invidio in esso. È pieno di finezze e la sua dimensione generale gli giova, è proporzionatissimo.» Queste le parole di una lettera personale indirizzata a Bega da Gio Ponti nel novembre 1959. L’inaugurazione della Torre Galfa precede di pochi anni il completamento del grattacielo Pirelli e le due costruzioni si confrontano in un singolare tête-à-tête, sorte come sono a pochi isolati l’una dall’altra. La torre di Melchiorre Bega presenta alcuni elementi di somiglianza con quella di Ponti e Nervi ma soffre certamente il fatto di essere adombrata, metaforicamente e non solo, dal capolavoro dell’ultimo Razionalismo italiano. Come il Pirellone, la torre Galfa è il frutto di una intelligente re-interpretazione in chiave italiana dei coevi grattacieli americani. A differenza dei prototipi, però, i due palazzi milanesi presentano una struttura in calcestruzzo armato e non in acciaio. Questa scelta è dovuta a una consolidata tradizione dell’industria edile italiana che predilige il calcestruzzo dell’acciaio anche per gli edifici alti e che vedrà la prima significativa eccezione solo nel “Diamantone” (Kohn Pedersen Fox Associates), inaugurato a porta Nuova nel 2012.

Primi anni Sessanta: la torre Galfa poteva contare su un avanzato sistema di riscaldamento integrato nei solai.
Primi anni Sessanta: la torre Galfa poteva contare su un avanzato sistema di riscaldamento integrato nei solai.

La torre di Bega presenta un’elegante facciata continua che avvolge, come una tenda di vetro, il parallelepipedo puro del grattacielo. L’immagine dell’edificio ricorda quella dei coevi progetti di Mies van der Rohe ma i serramenti sfalsati danno un ritmo originale ai prospetti e la grande trasparenza del volume lascia intravedere le due lame di calcestruzzo che sorreggono rastremandosi i ventotto piani di uffici. Nel 2016, dopo trent’anni di attesa e dopo la breve ma significativa parentesi del collettivo MACAO, sono iniziati i lavori di ristrutturazione della torre a opera di Bg&K Associati, che porteranno nuova vita (e un nuovo aspetto) al progetto di Bega. Dalle immagini divulgate, il progetto mira a migliorare l’efficienza energetica della torre con la messa in opera di una seconda facciata vetrata che ricorda nel linguaggio le ultime creazioni di Renzo Piano. Il progetto è, come spesso accade in questo tipo di ristrutturazioni, una soluzione di compromesso che garantirà un futuro al capolavoro di Bega ma ne comprometterà per sempre l’aspetto così generosamente lodato da Gio Ponti.

A pochi isolati di distanza, l’edificio Stipel, del 1964, sorge di fronte alla “Torre dei Servizi Tecnici Comunali” e presenta gli stessi elementi di raffinatezza che si possono individuare nel Galfa. L’edificio si presenta come un volume puro, con una facciata costruita a partire da una serie di griglie sovrapposte che definiscono nelle loro intersezioni le finestre fisse, gli elementi apribili e i pannelli opachi. All’ultimo piano, la facciata arretra lasciando visibile la struttura mentre il tetto sembra fluttuare al di sopra della propria stessa ombra, un dettaglio ricorrente nell’architettura milanese di quegli anni. Pur nella sua modernità, il palazzo Stipel si inserisce bene nel contesto e traduce lo schema tripartito delle facciate ottocentesche nel linguaggio asciutto ma raffinato del Dopoguerra meneghino.

1971, Giorgio Gaber posa davanti al palazzo Stipel (Foto © Luigi Ciminaghi)
1971, Giorgio Gaber posa davanti al palazzo Stipel (Foto © Luigi Ciminaghi)

A Milano, Bega partecipò inoltre alla costruzione di alcuni edifici della fiera campionaria, tra cui spiccava il padiglione della meccanica, costruito nel 1969 e abbattuto quarant’anni dopo per far spazio alle estrose architetture del progetto Citylife. A differenza di alcuni ben più celebri colleghi, Melchiorre Bega non ha elaborato uno stile così distintivo da imporsi anche agli occhi dei profani e questo rende in parte ragione dello stato precario in cui versano alcune delle sue architetture più significative. In realtà, Melchiorre Bega con il suo linguaggio sofisticato ma poco appariscente incarna al meglio la professionalità dell’architettura milanese del boom economico: l’immagine delle sue opere tanto si è prestata a rappresentare l’aspetto moderno e un po’ austero della nuova Milano da diventarne un simbolo. È proprio l’edificio Stipel che fa da sfondo a Giorgio Gaber in un servizio fotografico del 1971. Luigi Ciminaghi immortala il cantautore della nuova Milano in uno degli angoli più iconici del grande sviluppo edilizio. Fa sorridere che tra i tanti talenti dell’architettura milanese dell’epoca sia stato scelto proprio il lavoro di un bolognese a incarnare il volto della “milanesità”.

 

Immagine di copertina: 1969, Padiglione Meccanica 7 della Fiera Campionaria di Milano progetto di Melchiorre Bega e Cesare Seregni (Fondazione Fiera Milano)

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