Bologna, 1858, ultimi anni dello Stato pontificio. Il piccolo della famiglia Mortara, sottratto ai genitori ebrei, è battezzato a forza per diventare sacerdote della santa Chiesa. Ma secondo le leggi romane del tempo, questo comportamento violento e ingiusto non è illegale. Il regista emiliano usa un famoso scandalo di fine Ottocento per indagare massimi e minimi sistemi, rafforzando la sua statura di autore e intellettuale ateo, evidente da “I pugni in tasca” a “L’ora di religione”. Con un cast di primo piano che va dai giovani Enea Sala e Leonardo Maltese a Fabrizio Gifuni e Filippo Timi
Realtà romanzesca. Si sarebbe chiamata così. E una volta la storia di Rapito, passato con gran successo al Festival di Cannes e in uscita nelle sale italiane il 25 maggio, avrebbe avuto la copertina disegnata da Molino della Domenica del Corriere. Poco alla volta, spinto, a 83 anni, dall’esuberanza e dalla pacifica convivenza con i suoi fantasmi, Marco Bellocchio continua con energia registica a far quadrare i conti con la sua posizione di ateo, ben chiara in tutto il suo cinema dai Pugni in tasca a In nome del padre fino a L’ora di religione, dove già c’era un battesimo che viene impartito di soppiatto a un bambino.
Qui il bambino di 7 anni è Edgardo Mortara, che vive con la famiglia di fede ebraica a Bologna ma la sera del 23 giugno 1858 viene rapito dai gendarmi pontifici di Pio IX, il Papa che ha avuto la più lunga carriera sul trono, per essere stato battezzato di nascosto da una domestica che ha confessato il “sacramento”, perché il piccolo aveva pochi mesi e pensava fosse malato. A questo punto la legge della Chiesa non permette che il bambino sia allevato in una casa ebraica e così viene crudelmente strappato dalle braccia dei genitori, sequestrato da Gaetano Feletti, l’ultimo inquisitore. Sarà accudito con cura dal santo Padre in uno Stato Pontificio prossimo alla caduta: Porta Pia è il 20 settembre 1870, la presa di Roma. E allevato con ogni cura, anche se ogni tanto qualche equivoco mostra una certa nascosta ambiguità, per esempio quando da adolescente fa cadere il Papa.
Don Pio Mortara (in onore del “padre adottivo”), come si chiamerà dopo aver preso gli ordini, sarà un prelato fedele alla dottrina cristiana, pur avendo riallacciato i rapporti con i genitori ma essersi negato al fratello bersagliere che lotta per il Risorgimento. Fu portato all’estero, predicò, e morì vecchissimo a Liegi poco prima dell’arrivo dei nazisti. Il bambino aveva meno di sette anni quando fu sequestrato ma i rapitori furono assolti perché la legge della Chiesa prevede anche momenti crudeli come questo, aggiungendo così un fedele che non tradirà la causa nonostante una vita lunga e difficile, anche da missionario, ma ovviamente non esente da nevrosi, patemi e problemi.
Il caso Mortara non è un’invenzione della sceneggiatura di Bellocchio e Susanna Nicchiarelli, ma un fatto vero che divise le coscienze dell’epoca, anche le più altolocate (Napoleone III pregò il Papa di liberare il fanciullo), facendo scrivere articoli di fuoco sul New York Times e diventando una specie di caso Dreyfuss riferito all’infanzia, un’infanzia tradita e disperata pur se in linea col diritto canonico e il desiderio della Chiesa di allevare secondo i suoi dettami un bambino da “rubare” alla fede ebraica. Ma niente da fare. Edgardo Mortara (bravissimi i due attori che lo raffigurano nel film, Enea Sala da piccolo e Leonardo Maltese da adolescente), resterà volentieri prigioniero del papato, che considera la sua casa.
Il film si fa domande importanti, alcune senza risposte, ma Bellocchio dice che è importante tramandare la verità e non la leggenda, la spietatezza dei comandamenti. Del resto anche Steven Spielberg era interessato a fare un film sul “caso” ma poi ci ha rinunciato ed ora si appresta a vedere quello così duro e ispirato del suo collega, reduce dai successi di due film esemplari che hanno raccontato i dolori dell’Italia, Il traditore su Buscetta ed Esterno notte su Moro. Il film è lucido e spietato, ma impaginato con una narrazione attenta ai massimi e anche ai minimi sistemi, all’universale e al particolare, con grande eleganza di scene e costumi.
E con un’attenzione particolare agli attori che il regista sceglie, come suo recente uso, tra i migliori del nostro teatro; dai genitori, che sono Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi, a Paolo Pierobon (il Papa), fino a Fabrizio Gifuni (l’inquisitore) e Filippo Timi, un cardinale, oltre a Renato Sarti e Federica Fracassi. In fondo è un film sulla lotta tra il potere temporale e spirituale, o meglio sulla pericolosa alleanza dei due. Sarà interessante osservare oggi la reazione del pubblico, fedele o meno, al senso dell’incredibile vicenda, oltre alla sapienza drammaturgica di un regista che ha affinato film dopo film le sue armi contro le ingiustizie della vita, da quelle religiose a quelle private (Marx può aspettare), sempre unite da un filo invisibile.
Rapito, di Marco Bellocchio, con Fabrizio Gifuni, Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Enea Sala, Leonardo Maltese, Filippo Timi, Giustiniano Alpi