Elogio e critica dell’essere artisti, la pièce parla di solitudine, di occasioni colte e di quelle perse. Ma con il tenace impulso di Bennett ad andare avanti.
Alan Bennett è un autore noto per il pubblico dell’Elfo. Dopo History Boys, valso ben tre premi Ubu a tutta la compagnia (spettacolo dell’anno, migliori attori under 30, miglior attrice non protagonista Ida Marinelli), ad essere rappresentato sul palcoscenico con una nuova ed intrigante commedia è Il vizio dell’arte, messo in scena da Francesco Frongia e Ferdinando Bruni.
La vicenda ruota attorno ad una compagnia che sta allestendo Il giorno di Calibano per il National Theater di Londra e i due protagonisti della pièce nella pièce sono nientemeno che il poeta H. W. Auden e il compositore Benjamin Britten i quali, con la scusa di correggere un libretto d’opera, si ritrovano come due buoni amici. Discorrono di arte, musica, poesia, rispolverano aneddoti sul suocero di Auden, Thomas Mann, reinterpretando Morte a Venezia, si infervorano per le scelte stilistiche e poetiche e dibattono, con molto humour, su questioni personali e artistiche.
Valore aggiunto è Stuart, il ragazzo che da marchettaro si mostra curioso di quell’aura culturale in cui sono immersi i due giganti, cercando di dare voce a coloro che pur essendo appartenuti al mondo dell’arte, non hanno mai raggiunto le luci della ribalta. La messa in scena fa eco pirandellianamente ad un teatro nel teatro che si costruisce di fronte agli occhi dello spettatore, con gli attori, il direttore di scena, l’autore del testo teatrale e i tecnici delle luci che si materializzano con così tanta familiarità ed immediatezza, da rendere per un attimo lo spettatore dubbioso che si tratti di una rappresentazione teatrale.
Lo spettatore è partecipe di quel gioco di realtà-finzione che è proprio del puro teatro e a rivelare l’intensità del vero dramma nella seconda parte, immergendoci profondamente nella vicenda dei due artisti. Il vizio dell’arte racconta della società artistica con il filtro particolare del rapporto fra due amici, vissuti nello stesso periodo, contrappone e insieme coniuga poesia e musica, si svolge in un giorno di prove che potrebbe essere giorno di vita o una sintesi dell’intera esistenza. È un gioco che svela la solitudine dei due grandi artisti, tanto famosi quanto viziosi di poetica e mondanità e allo stesso tempo la solitudine e l’interazione di chi, questa solitudine, ha il coraggio di portarla in scena.
Viene fuori un quadro di saggezza sull’Arte, sulle occasioni colte e le occasioni perse, ma soprattutto il tenace impulso ad andare avanti, così come Bennet, ormai già 82enne, sta facendo.
Questo suo lavoro è insieme un elogio e una metacritica dell’essere artisti, del fare spettacolo e dell’appartenere a quel mondo che trasfigura la realtà in modo ludico e sognatore, senza lasciare spazio all’avvicendarsi della vecchiaia, Bennet suggerisce, forse partendo da se stesso, che il desiderio di creare qualcosa di grande ed importante non deve assopirsi, ma è necessario seguirlo profondamente, a dispetto delle voci contrarie. Particolare attenzione è data alle voci fuori campo dell’attività artistica, coloro che ruotano attorno agli astri: esecutori, pubblico, promotori, che ne riflettono e amplificano il bagliore.
Francesco Frongia, Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani ancora una volta ci regalano uno spettacolo leggero e parimenti denso di insegnamenti e proposte critiche, in un percorso, quello dell’Elfo, che non manca di regalare ad un pubblico spettacoli quanto mai contemporanei, per tema e linguaggio. Da vedere.
Foto di Laila Pozzo