Nello studio di Beppe Devalle

In Arte

In occasione dell’importante retrospettiva che il MART di Rovereto ha dedicato a Beppe Devalle (1940-2013), Cultweek vuole omaggiare il grande artista, torinese di nascita e milanese…

In occasione dell’importante retrospettiva che il MART di Rovereto ha dedicato a Beppe Devalle (1940-2013), Cultweek vuole omaggiare il grande artista, torinese di nascita e milanese d’adozione, con il racconto di una giornata trascorsa nello studio di Devalle: era il 2011.

 

Si entra per un vestibolo in cui, quel giorno, era appoggiato Marry me ed erano arrotolate le vecchie opere. Nello studio grigio, per terra, c’erano una marea di ritagli, ai lati pile immense di magazines, sui tavoli montagne di fotocopie, collages e cartelle. Sulle pareti, alcuni tra i più bei quadri di Beppe. Il suo sguardo vigilava su tutto, saltava da un tavolo all’altro, da una cartella all’altra, disponeva le immagini una vicino all’altra e mi faceva vedere come da dei ritagli originari, attraverso decine e decine di combinazioni, arrivava a creare – anche in diversi anni – una versione definitiva della composizione da realizzare sulla tela. C’è una dimensione fondamentale nell’opera di Beppe, ed è il ricordo. Lui mette insieme i collages come la mente procede nell’assemblaggio dei ricordi: si ricorda perfettamente dove ha messo un ritaglio di un «Time» del ’61 e lo assembla con la foto di un «Vogue» di ieri l’altro, sentendo che sta facendo la cosa giusta, e per chi lo guarda dall’esterno sembra un paziente sul lettino dello psicoanalista. Cominciai a capire cosa c’entravano i “Magazines” e come mai si trovavano tanti precisi riferimenti a immagini già viste, a motivi ripetuti dai rotocalchi. Capii che per capirlo ci voleva un certo occhio, e che bisognava vivere in questo mondo, sfogliare i giornali, divorare le immagini.

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Devalle è un pittore, e pittore deve rimanere: non trasformarsi in “artista”, qualcosa di troppo vago, di troppo farseur (per dirla alla piemontese), di poco serio, di troppo poco torinese. La sua è l’esigenza di tornare alla tela, di non fermarsi allo scontro con la realtà, alla sua analisi e selezione attraverso il collage. Sapeva che sarebbe stato difficile, che di pittura, immagine e disegno era molto difficile parlare negli anni Ottanta, ma lo avrebbe fatto lo stesso. Finì l’epoca del suo successo dirompente, finì l’epoca delle gallerie, finì l’epoca delle biennali, cominciò l’epoca del disegno, del perfezionamento tecnico. Tutto questo non accadde con strappi repentini e violenti, ma con un fluire in una nuova esperienza che non perdeva la ricchezza di quella passata: era sempre dominata da un’idea di perfezione. Tra fine anni Ottanta e inizio Novanta, quegli stessi ritagli e collages, in cui si raccoglieva e rimeditava l’eredità americana, erano diventati il punto di partenza da cui ripartire con un’arte consapevole ed europea, che, dopo anni di studio sui disegni, si esplicava sulla tela.

Passati nella stanza attigua, la “stanza nera”, dove i lucernari sono accecati e le luci sono artificiali, davanti ai pastelli e allo spray per fissarli, mi parlò delle tecniche, degli oli, delle marche produttrici, delle tele: rivelava tutta la sua competenza di professore di Pittura a Brera, dalle cui mani potevano apparire dei moderni Bronzino. Oggi, non vuole essere chiamato professore, essere chiamato maestro lo fa ridere: la cosa che più gli piace è essere chiamato pittore: è la più grande conquista della sua vita, il suo orgoglio. Beppe si muove nel suo studio, mi fa vedere tutti i suoi più recenti lavori, sicuro che la sua storia è la scelta vincente, che non può aver sbagliato l’ultima mossa di questa “guerra” tra chi crede che l’arte sia ancora un linguaggio in cui tradurre la realtà, e chi su di essa si adagia, o la evita, annunciando slogan del nulla.

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Nello studio c’è un divano, vecchio, usurato, che non è fatto per ricevere importanti acquirenti. Il divano è messo di fronte al quadro di Marella ed Edoardo Agnelli (Happy times): Beppe mi raccontò che se Marella gli avesse detto che quella non era lei, lui le avrebbe risposto: “certo, questo è Beppe Devalle”. E’ un orgoglioso isolamento, il suo, senza la sofferenza della solitudine. E’ convintissimo di aver capito la linea giusta della Storia dell’Arte, è sicuro che non verrà spazzato via, ma rivalutato, che finirà nei manuali di Storia dell’Arte non solo per il suo lavoro fino agli anni Settanta, ma tanto più per questi quadri, che segnano un ritorno alla pittura tradizionale, ma tanto consapevolmente arricchita e reinventata. “Credo nell’opera d’arte come oggetto di conoscenza, come somma ben calcolata di complesse operazioni. Il rifiuto dell’opera, il rifugiarsi nel comodo e ospitale limbo dell’avanguardia, dove con tale termine si giustifica l’inconsistenza e il precario e momentaneo risultato, o il fallimento, non può che portare all’attuale ambiguo momento”. Qui sta il portato di Devalle per la storia dell’arte: il tentativo di fare arte contemporanea, dopo la Pop Art, in continuità con una grande tradizione. Il problema, qui, non è fare arte, ma fare “storia dell’arte”, dialogare con essa. E lì, nello studio, lo capisco: i tagli, le linee tese di Beppe non sono altro che il rifiuto di una comoda mediazione. Tra Beppe e il dipinto ci sono i tavoli, i ritagli “buoni” sul tavolo, gli scarti per terra. Questo è il movimento della sua pittura: un confronto all’ultimo sangue, all’ultimo taglio, con i ritagli – è una fase di lavorazione lunghissima, una guerra di logoramento –, per poi arrivare alla sintesi finale della tela, su cui le ferite sono ancora evidenti, perché racconta tutto ciò che c’è stato prima, ma che è sempre qualcosa di più, perché vive anche di un’energia nuova ed inaspettata. I colori cambiano, le linee si geometrizzano, e Devalle torna in scena, il pittore, che non si lascia sommergere dalla realtà, ma la ri-vive, e ri-vivendola, la ri-vivifica.

L’eleganza è una cifra distintiva dell’opera di Beppe: con ammirazione ancora oggi ricorda Lucio Fontana come l’ultimo dandy del nostro tempo. Torna in mente l’eleganza in quel gesto del taglio, tanto caro anche a Devalle, così meravigliosamente immortalata da Ugo Mulas. Forse da giovane Beppe volle essere dandy anche lui, quando si comprò due Porsche che gli rimasero sempre nel cuore. Ora non è un uomo canonicamente elegante, anche se ha un suo stile inconfondibile: i grandi occhiali, squadrati, dal sottile profilo nero, scarpe solide, con la suola ben ancorata a terra, quasi da montagna, jeans neri, e maglioni che lo coprono dal freddo umido e intenso del suo studio. Rimane, comunque, del dandy, l’alto sentire di sé, l’orgogliosa consapevolezza della propria “diversità”.

Guardandomi attorno vedo Happy times, Cross Point, Vieniviaconme, appoggiati alle pareti, e Guardandovi, con uno Chopin “au perroquet”, John Lennon al piano e la solita Marylin. In Cross Point c’è Francesca Woodman che mi guarda, inginocchiata; vicino, Virginia Wolf squadra di sottecchi, passando di lì come una ladra, poi Lady Diana la cui testa, rovesciata, mi fissa con la stessa intensità degli altri, e infine, all’angolo opposto, Marella che alteramente giudica tutti quanti, compreso il suo figlioletto, che, così basso, ci muove a compassione con la sua piccola margherita da “m’ama; non m’ama” in mano.

Beppe, infatti, si tuffa nell’artificio, nella finzione dei giornali patinati: come disse nel 1977 “tra la realtà di cui io facevo parte, e la meravigliosa realtà di quella straordinaria passerella, io credo di non aver avuto dubbi, di aver fatto allora la mia scelta: mi sarei perso in quell’artificio, in quell’innaturalezza”, senonché è raro che Beppe si smarrisca; solitamente la sicurezza della sua pennellata dà la certezza di dominare quell’artificio. La geometria è una compagna che lo rassicura: con lei, tutto non può che andare bene. Ed in questo egli instaura un costante dialogo con Poussin e Cézanne.

Mi chiedo, però, perché Beppe abbia scelto questi soggetti, dalla pop Marilyn, eterna Venere cicladica, alla ricca Marella, icona di un nuovo rinascimento bronziniano, ad Andres Serrano, un fotografo “ladro d’identità”. In queste stanze, non può non venirti la domanda, sono i quadri che te la pongono, che sembrano guardarti e chiederti: “ma tu, chi sei?”. Ma poi li vedi, sperduti come degli indios Nambikwara (così disse una volta Beppe), e capisci che niente di loro sopravvivrà, che la loro è l’Ultima cena (come in un’ultima gigantesca tela di Devalle), che Damien Hirst può anche giocare con la morte, ma prima o poi sarà la morte a giocare con lui, come –purtroppo– Beppe sta imparando sulla sua pelle. Tutto per loro è compiuto, rimane solo il pennello di Beppe che ne suggelli la verità più intima. I magazines forniscono il cast di questo sistema di pittura, in cui le identità delle persone non vengono usate, ma cambiate.


Nello studio, il Devalle-pittore è l’unica cosa che vivrà per sempre: si sente, si palpa la fragilità del mondo patinato, delle copertine che diventano subito vecchie, che si frantumano tra le dita, mentre Devalle ancora le usa, le violenta, le stana nel suo studio. Il pittore vede la volgarità che lo circonda accrescersi sempre più e reagisce immortalandola, scontornandola senza pietà, non concedendole di passare indisturbata attraverso la storia. Ricordo con stupore certe immagini pesanti, grevi, volgari, che vidi nello studio e nei suoi quadri anni ’90. Oggi Beppe sembra avere uno sguardo meno violento, rimane, tuttavia, sdegnato. Davanti ad un mondo, che sembra andare in direzione totalmente contraria, nella piccola isola felice dello studio di Devalle a Pessano, i suoi dipinti propongono una bellezza che si rifiuta all’obiettivo fotografico, un’emotività sincera, una profonda riflessione, una divertita evasione.

 

Fotografie di Riccardo Taiana

Immagine di copertina: Beppe Devalle, Nope (Beppe Devalle), 2009

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