Bernard Haitink (novant’anni) si congeda dal suo pubblico al KKL di Lucerna con la celebre sinfonia di Bruckner. Alla guida dei Wiener, il direttore si rivela ancora una volta un poeta dell’incrinatura, delle microirregolarità, dei rubati impercettibili, dei piccoli dettagli che l’ascoltatore registra senza accorgersene
Per Bernard Haitink quello dello scorso 6 settembre al KKL di Lucerna è stato il concerto dell’addio; e il pubblico, dopo la miracolosa Settima di Bruckner ascoltata, ha suo malgrado realizzato che il gesto con cui il direttore ha spento il suono dei Wiener Philharmoniker, mano sinistra a mezz’aria, salda e discreta come solo la mano di un novantenne può essere, sarebbe stato il suo ultimo gesto su un podio. Il trionfo che è seguito, con standing ovation davanti al maestro sorretto dal braccio della giovane moglie, non era in contraddizione con le scene di pianto e insanabile disperazione che si sono viste poco dopo in foyer, quando anche l’ultimo soprabito era stato ritirato dal guardaroba e tutto era davvero finito.
Oltre sessant’anni di carriera: Orchestra del Concertgebouw, London Philharmonic e Chicago Symphony, ma anche Glyndebourne e Covent Garden, fino alla Mozart di Abbado solo per citare gli incarichi più importanti. Ma è soprattutto in questi ultimi anni che le sue esecuzioni sono divenute appuntamenti sempre più sconcertanti, per l’assoluta chiarezza di un pensiero musicale puro e schietto, che non fa sconti, e che soprattutto non ha mai ceduto ai ricatti degli effetti, dei sentimentalismi, di qualsiasi idea di musica al di là della musica. Tanto che persino durante la sua festa d’addio, con Bruckner appunto, nessuna debolezza emotiva si è permessa di guastare l’incantesimo tra lui, l’orchestra e il pubblico.
Un incantesimo fatto di infiniti nascosti appena prima di una pausa. Fino alla fine Haitink si è dimostrato un poeta dell’incrinatura, delle microirregolarità, dei rubati e respiri impercettibili, dei tanti piccoli dettagli che l’ascoltatore registra senza accorgersene. E alla fine la struttura che si coglie, robusta e rigorosa, sembra rivestita di una decorazione misteriosa che ha a che fare con il non detto, con l’implicito, più che con l’esplicito: come un’ombra di cui non ci si era resi conto, ma che spiega, per dirla col teologo Karl Barth, “l’impossibile possibilità” di un intero mondo musicale.
Nella prima parte, Haitink ha diretto Emanuel Ax nel Quarto concerto per pianoforte di Beethoven. Il pianista americano ha un suono raffinato ed elegante, elaborato all’inverosimile per definire atmosfere sempre incantevoli. Ma Ax sa risolvere anche i passaggi più brillanti con analitico entusiasmo e senza tanti palpiti, il che lo rende probabilmente l’interprete ideale per la lettura di Haitink, per il quale l’enfasi e la retorica sono categorie sconosciute tanto nell’arte quanto nella vita.
Lo stesso fine settimana al KKL si è sentito il trentenne israeliano Lahav Shani, nuovo direttore principale della Filarmonica di Rotterdam, che ha diretto con assoluto controllo l’imponente Quinta di Bruckner, a memoria. Una missione quasi impossibile, riproporre Bruckner dopo l’ultima Settima di Haitink, ma Shani se l’è cavata egregiamente ottenendo un meritato successo alla guida di una macchina esecutiva al limite della perfezione, cui manca solo di smussare un poco l’omogeneità raggiunta. Infine Riccardo Chailly, direttore musicale del festival, ha diretto con entusiasmo la magnifica orchestra Alumni, con gli ex allievi dell’accademia di Lucerna, in un programma avventuroso da Schönberg a Rihm, passando per la rarissima, meravigliosa e belcantistica Grande Aulodia per flauto e oboe soli con orchestra di Maderna – solisti Jacques Zoon e Lucas Macías Navarro.
Immagine di copertina © Priska Ketterer/Lucerne Festival