Emma Dante, con «Bestie di scena», recupera eccitanti avanguardie, dal Living Theatre a Pina Bausch: l’intuizione è brillante, ma lo spettacolo non è sempre coinvolgente
Il gioco del teatro secondo Emma Dante e le sue bestie, di scena e in scena al Piccolo fino al 19 marzo, parte dalla perdita di ogni cosa, eccetto se stessi. Zero Kelvin della scena, nell’immenso spazio vuoto dello Strehler: superflui i costumi, le scenografie e le vicende. Persino le parole mancano, diventano versi e rumori fisiologici di attori – a dire il vero anche di spettatori – per raccontare qualcosa: un’origine laica del mondo e dell’uomo, quando in un passato senza testimonianze, prima della scrittura, l’uomo si è visto nelle prime rappresentazioni. O meglio si è visto vedersi, come ha detto Romeo Castellucci inaugurando il nuovo Teatro dell’Arte alla Triennale.
Come in un videoclip o in un musical tutto parte dall’allenamento. Pubblico ancora vociante nella sala illuminata, sul palco una specie di crossfit di gruppo per i sedici attori che poi si spogliano uno a uno, capo a capo, e lanciano verso le prime file i vestiti sudati, nella metamorfosi da persone qualunque a servi di scena. Anzi di più, bestie disumanizzate, condannate alla crudeltà del teatro, al voyeurismo degli spettatori da intrattenere a luci spente, come al circo o allo zoo, in cui per soddisfare il pubblico servono animali impressionanti.
Questi animali notturni sono i corpi nudi, esposti, con indosso solo i principi vitali che li sorreggono, ma che non bastano come protezione dal freddo e dalle avversità di quest’inferno “dantesco” nel senso di Emma. Battutaccia, ma se per Sartre «l’inferno sono gli altri» in questa versione gli altri sono davvero dappertutto: ogni attore per l’altro, gli spettatori, la Dante stessa, i tecnici che da dietro le quinte inviano alle bestie i loro contrappassi. Ma insomma: quelli in scena non sono corpi qualsiasi, ma corpi di attori, con membra e membri – altra battutaccia – esibiti come strumenti di un interminabile lavoro su se stessi.
Questa in sintesi la riflessione della Dante, che per settanta minuti sottopone i suoi magnifici attori a ogni sorta di prova. Da vera burattinaia distribuisce i ruoli, a ciascuno il suo: la scimmia, l’automa, l’acrobata, c’è chi balla, chi fa a botte, chi tira di scherma. Tanti episodi, alcuni divertenti: gli attori che scivolano via sul palco unti da chissà che sostanza, le scope per ripulire il pasticcio di arachidi smangiucchiati e sputati fino in platea, pubi coperti inutilmente da manine tremolanti prima di dimenticarsi ogni pudore. Lo spettacolo si chiude coerentemente con la restituzione dei vestiti: gli attori ancora nudi in proscenio, stavolta nessuna vergogna, fissano il pubblico senza indietreggiare.
Quel che più colpisce dello spettacolo è l’abilità che hanno gli attori di meravigliarsi. Le varie prove che arrivano dalle quinte si trasformano ogni volta in coreografie di silenzio e stupore. Con Bestie di scena la Dante riesce a far intravvedere l’intrinseco sadomasochismo dell’interpretazione teatrale, anche se forse sarebbe più significativo da inserire in controluce, magari in un’opera organica e non solo abbozzata. Perché se il lavoro dell’attore è per definizione incompiuto, questo spettacolo è piuttosto non cominciato.
E per quanto brillante possa essere l’intuizione, bravi gli attori, consapevole il movimento scenico, non è mai davvero coinvolgente, pur recuperando vecchie eccitanti avanguardie, dal Living Theatre a Pina Bausch: teatro in rivolta di maestri che ripartendo da Stanislavskji sezionavano il gesto in cerca dei presupposti minimi dell’interpretazione. Il sottoscritto se li è persi per questioni anagrafiche, ma chi c’era giura che erano emozionanti.
(foto di Masiar Pasquali)
Bestie di scena, al Piccolo Teatro fino al 19 marzo