Sunset Limited di Cormac McCarthy arriva all’Elfo con un protagonista d’eccezione: Saverio Marconi
È dai tempi dei leopardiani Plotino e Porfirio che si fa un gran parlare della legittimità del suicidio. Ma, in questa eterna disputa, tra i due litiganti è sempre il terzo – o meglio, la terza – a godere: la Signora con la Falce arriva, che la si sia convocata o meno, ad annullare ogni provvisoria vittoria dialettica tra i retori a favore dell’auto-annientamento e i sostenitori incondizionati della vita.
Ciononostante, fintanto che respirano, i Porfiri (a dispetto della loro disaffezione per l’esistenza) possono farsi contagiare dalla vanità che induce quasi tutti gli esseri umani – Plotini inclusi, ovviamente – a voler avere ragione a tutti i costi. Quindi, mentre affilano il rasoio o annodano il cappio, riempiono verbosamente lo spazio che li separa dal Nulla sforzandosi di descrivere il Nulla medesimo nel modo più vigoroso, facendo terra bruciata tra le convinzioni dei Plotini.
A dispetto della loro inevitabile vacuità (e dell’altrettanto inevitabile ripetizione degli argomenti), i dibattiti tra i Plotini e i Porfiri possono risultare molto coinvolgenti; in altri casi invece i fiumi di parole che si possono spendere sull’argomento finiscono dritti dritti nel cassonetto cerebrale destinato al “già sentito”. Bianco o Nero, l’adattamento di Sunset Limited di Cormac McCarthy proposto dalla Compagnia della Rancia, si aggiunge – a conti fatti – al novero dei dibattiti coinvolgenti. Ma questo “a conti fatti” non è buttato lì a caso.
La drammaturgia di Bianco o Nero si compone di due arringhe distinte: la prima ad arrivare, con tutta la prepotenza possibile, è quella del Plotino di turno, un ex-galeotto afroamericano che ha appena salvato un Porfirio ribattezzato il Professore, alias il Bianco del titolo (per la carnagione e per i capelli). Questo Professore stava giusto per suicidarsi buttandosi sotto il treno ultra-veloce Sunset Limited, ma il Nero – che dopo la detenzione ha consacrato la sua vita al tentativo, quasi sempre fallimentare, di salvare i tossicodipendenti – lo ha preso al volo.
Il Nero, che ha trovato la fede in carcere dopo essere stato lasciato esanime da una coltellata, tiene in “custodia cautelare” il Bianco per evitare che questi cerchi un nuovo treno per completare l’opera lasciata a metà; nel frattempo lo interroga, scoprendo che il Bianco non è motivato al suicidio da niente di più preciso di un generico ma totalizzante odio per la vita. Né i libri, né la musica, né gli antidepressivi riescono più a rendergli gradito questo mondo, quindi la risposta – secondo la diagnosi del Nero – è una sola, di appena tre lettere: Dio, la cui chiamata dovrà verosimilmente essere attesa dal Bianco proprio nell’appartamentino striminzito e blindatissimo del Nero.
Per quanto il Nero si dimostri più elastico dei suoi predicatori di riferimento, la sua arringa è una sorta di waterboarding per il Bianco ateo e razionalista che, reso ottuso dai suoi pensieri, rimane passivo e risponde con degli argomenti spuntati, provocando la rabbia dei filo-porfiriani presenti in sala. La sua arringa vera e propria rischia quindi di giungere troppo tardi, ma quando arriva è davvero spiazzante e non fa prigionieri.
Le interpretazioni di Saverio Marconi e Rufin Doh Zéyénovin sono precise, ben dosate; ogni parola è soppesata a dovere e la regia di Gabriela Eleonori contribuisce a farlo notare; forse però – laddove le ciarle del nero stancano – potrebbe essere d’aiuto approfittare degli appigli del testo per aggiungere qualche dettaglio.
Perché il Bianco si trattiene nell’appartamento del Nero a dispetto dei suoi continui «devo andare»? Perché – nella visione di chi scrive – è affascinato da una situazione estranea al suo vissuto (a cui è stato condotto paradossalmente dal tentato suicidio) ed è intrigato dalla soverchiante oratoria dell’afroamericano evangelizzatore e omicida. Il Bianco nei bassifondi non ci ha mai messo piede, figuriamoci in un rifugio per tossici (e il Nero scruta i suoi arricciamenti di naso nell’osservare lo squallido monolocale)! Sebbene sia ancora proiettato verso la morte, il Bianco si compiace di farsi raccontare storie di galera orrorifiche (e il Nero, conoscendo il suo pollo, le infarcisce di dettagli raccapriccianti). Il Bianco, insomma, si gode i suoi ultimi brividi. Perché quindi non fargli sudar freddo più visibilmente quando il Nero alza la voce e sbatte le sedie per terra, come farebbe ogni bravo perbenista, appartenente a una élite intellettuale, del tutto a digiuno di emozioni?
Qualche particolare in più per concretizzare questi due personaggi complementari potrebbe riattivare la circolazione dell’occhio; ciò non toglie che Bianco o Nero riesca a dimostrare che Plotino e Porfirio, quando trovano le parole giuste, possono ancora afferrarci per la gola.
In scena al Teatro Elfo Puccini fino al 10 giugno