in scena al Piccolo lo spettacolo di Francesco Alberici, vincitore nel 2021 del Premio Ubu per migliore
attore/performer under 35.
Sulla falsariga dell'opera di Maurizio Cattelan, Alberici porta in scena le sue riflessioni rompendo la quarta parete. Gli scoiattoli però restano vivi, più o meno. Una produzione SCARTI in coproduzione con Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Ente Autonomo Teatro Stabile di Bolzano con il sostegno di La Corte Ospitale
Un gioco meta-teatrale che non risparmia critiche a sistemi lavorativi o meglio alle persone che li creano e su cui si gioca il senso di una vita.
Tra recriminazioni, mobbing, sistemi non solo relazionali, ma anche familiari, responsabilità, dubbi e identità.
Vale per uffici di aziende vale per il teatro. Realtà lavorativa con le sue assunzioni, i suoi obblighi, i suoi impegni economici, molto poco poetici.
Ma che cosa succede se un autore, un regista inscena la vita di suo fratello, alter ego?
A seconda del proprio sistema di valori la verità può essere rubata e manipolata.
Chi è la vittima? Chi è il carnefice?
Spesso le situazioni sono più sfaccettate di come appaiono.
Un avvocato irrompe a cercare di redimere un licenziamento indotto, ma si trova poi a essere testimone di ciò che soggiace in un sistema familiare sotto pelle. Organo di confine tra il dentro e il fuori. Come le scatole in cui a volte capita di inscatolarci. Tra talenti sopiti, offuscati e imposizioni normative. Un po’ come la vita che ci induce a scelte, se non siamo noi a scegliere o ribellarci per ciò che vorremmo, se solo, forse, lo volessimo davvero.
La musica e un pianoforte in un ufficio/ magazzino/palcoscenico spoglio – spazio polisemico – la macchinetta di un caffè con il latte al cocco (cit. da La Tirannia del tempo di Judy Wajcman, ma potrebbe rievocare anche il latte come metafora di nutrimento/rapporto genitrice-figli a cui il corpo può reagire attraverso pelle e intolleranze a cui ovviare attraverso soluzioni pratiche, veloci ed economiche), un tavolo, due sedie gialle e un rubinetto anni Cinquanta.
Una miccia pronta a esplodere.
Come una dermatite appunto, come il rapporto con una madre-matrigna capofamiglia e capoazienda.
Viene in mente il teatro dell’assurdo di Ionesco, con i suoi fuochi, le sue relazioni, il no sense e un animale – in quel caso il rinoceronte – che era metafora di un sistema dittatoriale.
Quale spazio di liberà c’è nella vita? Bidibibodibiboo di Alberici prova a indagare il senso di un’esistenza che è/potrebbe essere quella di molti.
Un’esplosione avviene.
Ma nel caso di Bidibibodibiboo sembra lasciata lì. Un po’ fine a sé stessa, senza sviluppo drammaturgico.
A fine spettacolo il pubblico fuori dal teatro parla ancora dell’allestimento, ma si chiede il perché di quell’azione.
Un scoppio in scena, si sa, cambia il ritmo.
Un incidente che accade.
L’azienda nella drammaturgia è intrecciata con il sistema familiare. Nessuna conseguenza comunque viene esplicitata.
L’esplosione potrebbe essere metafora del colpo dello scoiattolo che resiste?
La domanda di fondo però resta tra gli spettatori: era necessaria quell’esplosione?
La puzza di bruciato e nuvole di fumo arrivano sul pubblico, qualche cosa della scenografia vola fino alle prime file, qualcuno sobbalza.
È la stagione della parola quest’anno per il Piccolo.
Una dimensione meno esterofila lontana dalle macchine sceniche dei toni imperiosi e cupi, dell’impianti scenici fatti di light e music design a cui ci eravamo abituati, anche un po’ assuefatti, forse.
Un teatro più intimo, più agevole, fatto di recitazione più “cinematografica” che statuaria – quella verità di interpretazione che in tanti invocano da tempo rispetto all’estetizzazione (il dibattito è ancora in essere) – un teatro più vicino alla stand up comedy e che si relaziona con l’ambiente, un teatro che torna a sfondare la quarta parete non solo come scelta estetica, ma forse a ricordarci che siamo umani ancora capaci di incantarci per una giovane promessa che sale e si mette a suonare un pianoforte (Carlo Solinas 20 febbraio, Ario Sgroi nelle serate dal 21 febbraio al 3 marzo).
L’illusione abbandonata di qualcuno con il talento chiuso in un cassetto, ma ben conscio di dove è nella vita, resta insieme a chi, invece, se ben guidato o forse solo ben determinato riesce a trasformare la sua vita con la vocazione a riempirla di senso.
Sullo sfondo per chi non è più giovane, tra i drammi lavorativi che si intrecciano insieme a quelli esistenziali, resta un’altra possibilità.
L’amore di una futura sposa, un’altra figura femminile, più madre che matrigna pronta ad accettare l’altro da sé per come e per quello che è.
Un po’ come dovrebbe accadere nella vita per la vita, senza necessariamente aspettare di esserne costretti da un evento di forte crisi. Come per esempio lo spartiacque di un lockdown.
Foto di copertina: ®MasiarPasquali