La LIX Biennale di Venezia ha appena inaugurato. La seconda puntata del nostro racconto è una vista guidata all’esplorazione dei padiglioni nazionali.
C’è un’area, ai Giardini della Biennale di Venezia, che mette vicini i padiglioni – ambasciate vere e proprie – di Francia, Inghilterra, Germania e, poco dietro, Stati Uniti d’America. Una vicinanza che ha sempre acceso ambizioni agonistiche tra i dirimpettai, che immancabilmente se la giocano per emergere sui contendenti. Quest’anno il premio più ambito se l’è aggiudicato la Gran Bretagna, Leone d’Oro alla miglior partecipazione straniera, che nell’ottica palesemente black oriented della giuria se lo contendeva con gli Stati Uniti d’America e la Francia.
Tre operazioni che, viste vicine, portano a pensieri di decolonizzazione culturale in un’accezione estesa. Niente di male, ovviamente. Anzi: fare i conti con il proprio passato è doveroso e pagare i debiti pure. Ma bisogna vedere come. L’emancipazione culturale di chi fu schiavo prodotta per sua propria ricerca ha un sapore. L’ex colono che di sua sponte concede la restituzione di un furto o dedica spazio all’artista etnografico ne ha un altro.
Qui succede un po’ di tutto. Gli Stati Uniti d’America presentano Simon Leigh, peraltro Leone d’oro come miglior artista alla Mostra Internazionale curata da Cecilia Alemani. Per quanto mi sembri affezionata a una certa retorica, l’artista che “analizza la costruzione della soggettività Black femme” ha un suo percorso e una sua personalità, indubbiamente. Ma allora colpisce ancor di più che il padiglione sia stato trasformato, con travi e paglia, nella Capanna dello zio Tom. Se l’intenzione era quella di trasformare l’architettura coloniale del padiglione in abitazione africana, questa intenzione si scontra con un impatto visivo da parco tematico sovranista.
La Gran Bretagna, invece, propone un’installazione di Sonia Boyce, piacevole quanto piaciona, incentrata sull’esplorazione delle dinamiche interpersonali. Tra video canori, disegni, fotografie, carta da parati fashion e sculture-oggetto doratissime, l’impianto concettuale dell’operazione appare assai accademico e il messaggio diluito, non certo meritevole di un Leone d’oro.
Ma arriva poi la Francia, che questa volta fa la voce grossa con uno splendido padiglione dell’artista franco-algerina Zined Sedira. Anche lei, come le sue colleghe, analizza, esplora e indaga, in questo caso la storia del suo paese d’origine, e lo fa attraverso il cinema. Lo spazio è infatti costellato di scenografie cinematografiche, sinceramente immersive e pervase da un senso di realtà veicolato dal loro essere palesemente finte, come conoscere il trucco e rimanere comunque stupefatti davanti a un prestigiatore. Questo è l’impatto emotivo che, almeno su di me, ha avuto Les rêves n’ont pas de titre, “I sogni non hanno titolo”. E detto da me, che ho scritto più titoli che libri, la perdita del titolo assume il sapore della gita infantile a Gardaland che riempie di meraviglia, e la deriva all’interno, alla ricerca di una comprensione del significato, diventa blanda e compiaciuta. Ma arriva eccome, ed è fatta di cinema franco-algerino, di registi come Ettore Scola, Luchino Visconti e Orson Welles, di tango e di schiaffi, di casa e di meta-casa. Il tutto trasformato in un ulteriore film sui film, proiettato nel cinemino retrostante e in cui si riconoscono i verissimi spazi finti appena visti. Menzione speciale della giuria e mio Leone d’oro personale.
Anche la Grecia dice la sua presentando un viaggio in realtà virtuale all’interno del campo rom “Nea Zoi” di Atene, non-luogo Herzoghiano dove gli abitanti mettono in scena per noi e con noi l’Edipo a Colono di Sofocle. Un’esperienza vera, apprendimento vicario di una realtà e di un mito dirompenti. E con la cultura rom c’entra anche un altro ottimo padiglione, quello della Polonia che presenta l’installazione di opere dall’impianto rinascimentale ispirate agli affreschi astrologici di Palazzo Schifanoia a Ferrara, realizzate in patchwork in stile rom dall’artista Małgorzata Mirga-Tas.
E poi, sempre ai Giardini, il Belgio propone un Francis Alÿs in gran forma che crea un parco giochi universale in cui i bimbi giocano ai loro giochi, e dietro ogni gioco c’è una storia, bellissima sempre, drammatica a volte, sorprendente a tratti: come i bimbi africani che “chiamano” le zanzare imitando la loro frequenza sonora amorosa, la folle discesa all’interno di un copertone che rotola giù dalla montagna di terra di risulta di un impianto industriale o le impressionanti saltatrici di corda orientali. Un’opera d’arte che si sostiene su un lavoro di ricerca, documentazione e formalizzazione abilissimo, penetrante e pieno di speranza.
La Spagna presenta invece il raffinato intervento di Ignasi Alballì, che gioca sull’architettura “raddrizzandola”, con muri posticci inclinati di 10°, rispetto ai padiglioni adiacenti. Un’opera di spazio e luce degna delle grandi riflessioni della storia dell’architettura, non ultima quella del padrone di casa Carlo Scarpa, e che scardina con la nuova ortogonalità lo spazio consueto rispetto al suo contesto.
Ma Alballì allarga ancora il discorso, invitando lo spettatore attento a iniziare un percorso per la città alla ricerca di luoghi particolarmente significativi. Non quelli turistici o pittoreschi ma gli stessi luoghi della vita del veneziano residente, luoghi del cuore per me adottivo come la libreria La Toletta o la bottega della Beppa nascosta a Castello. Sei luoghi dove a chi si presenta viene donato un libricino colorato, la cui custodia rigida è in attesa al padiglione a cui si torna riallineati alla nuova anatomia dello spazio.
Infine, un po’ nascosto ma da non tralasciare, un intenso Uruguay con Gerardo Goldwasser prende le misure sartoriali del corpo del visitatore e della storia collettiva, dentro un allestimento di enormi rotoli di tela nera e spessa costellata di cartamodelli e incorniciata da una fila di maniche dello stesso tessuto e da un sottile metro da sarto poggiato a terra, ricordo del nonno sarto salvatosi dal lager confezionando divise.
Dei padiglioni all’Arsenale, invece, voglio ricordare solo due momenti che sono riusciti a riemergermi nella memoria dal marasma da expo milanese che anima la kasbah biennalista: Malta e Messico. Malta, perché presenta un lavoro di Arcangelo Sassolino estremamente suggestivo che, anche se concettualmente semplice, regala un momento di stupore e coinvolgimento grazie alle piccole meteore di acciaio fuso che cadono dall’alto dell’oscurità caravaggesca di una grande gabbia in un liquido altrettanto scuro, in cui sonoramente si estinguono. E poi Messico, nello specifico il video Soneto de alimañas di Naomi Rincòn Gallardo, perché talmente assurdo e immaginifico da togliere le coordinate di giudizio.
Molti, moltissimi sono gli altri padiglioni ai Giardini e all’Arsenale, e ancora di più sono i padiglioni ufficiali e abusivi all’esterno, in palazzi, botteghe, androni e piattaforme. Ci si può perdere in una infinita, incantevole deriva. Ma io comincio ad avere un’età e, rispettosamente, mi fermo qui!
Immagine di copertina: Padiglione Centrale, foto di Andrea Avezzu. Courtesy La Biennale di Venezia.