Terza puntata della nostra esplorazione della LIX Biennale di Venezia: una rassegna a capofitto delle tante mostre aperte in Laguna in questi mesi
Dopo la Mostra Internazionale curata da Cecilia Alemani e il variegato cluster dei padiglioni nazionali sparsi tra Giardini, Arsenale e città, è impossibile andarsene da Venezia senza affrontare almeno alcune delle innumerevoli mostre, collaterali e non, che punteggiano la laguna come la rosa di pallini di un fucile da caccia. Uso una metafora venatoria perché la giungla espositiva che si scatena in quest’occasione somiglia molto a una lotta atavica, non per sopravvivere, forse, ma certo per dominare, apparire o almeno esserci.
All’apice della piramide gerarchica se la contendono due giganti dell’Arte Contemporanea, l’ipertrofico post-tintorettiano Anselm Kiefer a Palazzo Ducale e l’altrettanto ipertrofico e sbrodolante Anish Kapoor alle Gallerie dell’Accademia e Palazzo Manfrin, sua nuova magione veneziana che presto diventerà Fondazione a suo nome. Tra i due pesi massimi vince a man bassa il primo, un Anselm Kiefer in splendida forma che tiene alta la guardia, affonda e domina con la sua stazza da pittore navigato e artista intelligentissimo. E con lui vince la direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia, Gabriella Belli, che con questo intervento porta il contemporaneo nel tempio inviolabile della storia e dell’arte veneziana, aprendo una strada che speriamo venga ripercorsa in futuro. Il veterano Kiefer anche stavolta ha zittito tutti con l’imponenza, la forza e al contempo la grazia delle sue opere enormi, cariche di materiali, oggetti, allusioni quasi mistiche e riferimenti alla Serenissima. Si arriva alla Sala dello Scrutinio che le ospita dopo aver attraversato l’intero Palazzo tra opere d’arte immortali, sale d’armi e memorabilia della gloriosa Repubblica di Venezia.
Da qui, l’immersione in “Questi scritti, quando saranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce” avvolge e rimane addosso nel lungo percorso d’uscita, che passa per le terribili prigioni e il Ponte dei Sospiri, ancora carico dell’angosciosa malinconia dei condannati a morte che da lì guardavano per l’ultima volta San Giorgio del Palladio. Un’installazione pittorica, quindi, che trasforma l’intero Palazzo Ducale in un’installazione totale e immersiva. Un’opera che, si potesse, andrebbe lasciata dov’è per i posteri.
Non finisce al tappeto ma si riempie di lividi Anish Kapoor, celeberrimo e solitamente bravissimo artista inglese che però stavolta, checché ne dica la vox populi, delude. Nelle due sedi della mostra Kapoor riesce ad ottenere il minimo risultato con il massimo sforzo, con un rapporto costi/benefici decisamente fallimentare.
I suoi lavori più potenti, come il cannone che spara sugna colorata, sono allestiti a mo’ di un museo del Risorgimento in campagna, le opere al nero – quelle realizzate con il pigmento di cui l’artista ha acquistato il brevetto e che annulla praticamente ogni riflesso di luce creando tenebre e appiattimento – sono oggetti da museo della scienza e della tecnica, le installazioni sono gigantesche quanto inespressive, i soliti specchi concavi restano strabilianti ma quello sono e, last but not least, la pittura. Anish Kapoor si inventa pittore in tarda età con un gesto informale a manate furiose che non è minimamente alla sua portata, perché è un gesto che richiede una vita di esperienza, di ricerca e di sintesi che lui, in questo, non ha. Certo, l’insieme è suggestivo e il mestiere non manca, ma la prossima volta anche meno!
C’è poi un’altra esibizione di forza che impatta sul panorama veneziano, ed è quella di François Pinault, il collezionista e magnate proprietario di Palazzo Grassi e Punta della Dogana dove troviamo rispettivamente Marlene Dumas e Bruce Naumann, le due mostre davvero imperdibili in questo momento in città.
Marlene Dumas, con “open-end” a Palazzo Grassi, riesce con maestria a raggiungere livelli di intensità, in equilibrio tra Eros e Tanathos, degni di Francis Bacon, con la sempre maggiore potenza di sintesi formale di una pittura scarna e brutale ai limiti dell’outsider.
Contrapposto studies di Bruce Nauman, alla Punta della Dogana, è invece la fusione fredda dell’Arte Contemporanea, una lezione di stile e di tecnica del contemporaneo di livello assoluto. Il grande artista americano, con leggerezza da fanciullino, gioca con la tecnologia del nostro tempo rievocando opere degli anni giovanili, allestendo una mostra capolavoro semplicemente camminando avanti e indietro nel suo studio.
Usciti indenni da tanta testosteronica esibizione di potenza, si può cominciare ad andare alla deriva, incontrando eventi a random in uno degli infiniti tracciati possibili. Dopo Kiefer, in piazza San Marco, ci si può imbattere in un gioiello architettonico che è difficile definire per bellezza, rigore e purezza di forme: il negozio Olivetti di Carlo Scarpa, di proprietà del FAI, che ospita una doppia mostra di Lucio Fontana e Antony Gormley ma che, inevitabilmente, fagocita qualunque corpo estraneo alla sua perfezione. Da lì si sale alle Procuratie Vecchie, dove è ospitata l’affascinante mostra Persistence di Louise Nevelson, pioniera dell’assemblaggio e artista capace di vette poetiche altissime con materiale di scarto, trattato con la grazia dell’amanuense e la poesia del rigattiere.
Dalle parti delle Gallerie dell’Accademia, una volta visto Anish Kapoor, andando verso la mostra Surrealismo e magia. La modernità incantata della Collezione Peggy Guggenheim – che racconta l’interesse dei surrealisti per la magia, la mitologia e l’esoterismo includendo finalmente anche le bistrattate artiste del movimento – ci si imbatte in Joseph Beuys. Finamente Articolato, a Palazzo Cini, una piccola ed elegante mostra, curata dal sempre ottimo Luca Massimo Barbero, che presenta una preziosa selezione di lavori giovanili del Maestro in cui è già presente in nuce la sua futura ricerca.
Dalle parti di San Giovanni e Paolo a Castello si incontra, al complesso dell’Ospedaletto, Penumbra, articolata mostra video della Fondazione In Between Art Film a cura di Alessandro Rabottini, che si struttura come una quasi Biennale autonoma tutta incentrata sul video, dipanandosi dalla chiesa sconsacrata all’ingresso – che ospita Pantelleria dei Masbedo, opera storica e attualissima – alle stanze più diverse, tutte immerse nella stessa semi oscurità anche metaforica del titolo. Imperdibile poi a Ca’ Pesaro l’italian lesson di Afro, figura unica dell’informale italiano, autore di quadri “dipinti con il tamarindo e il granoturco”, per citare Cesare Brandi, che insegnarono agli artisti americani la loro strada espressiva. Una mostra incantevole, che rende in parte giustizia a questo artista profondamente veneziano nella pittura e internazionale nella ricerca, ma che ancora non gode del giusto riconoscimento della storia.
Un salto infine alla Giudecca, Venezia minore ma piena di fascino, per la mostra di Hermann Nitsch al Zuecca Project Space. Il Maestro dell’Azionismo Viennese – dipartito a inaugurazione avvenuta lasciando un vuoto incolmabile nel mondo vacuo e conformista del contemporaneo – esce di scena con un numero da grande mattatore, 20th painting actions del 1987, l’unica sua opera che riunisce le azioni dipinte in performance in un’unica installazione sacrale e dirompente.
E poco lontano una menzione merita il Giudecca Art District, che ospita padiglioni e mostre tra cui l’esotica Silk, mostra di arte tessile con artisti provenienti dal Caucaso, dall’Italia e dalla Germania, tra cui spicca per complessità il lavoro di Lisa Batacchi presente con due arazzi realizzati a mano dall’artista con tecnica ancestrale, nel recupero dei simboli del misticismo della Via della seta, compresi nel solco di un più articolato progetto fatto di viaggi, incontri e reciproca conoscenza.
Insomma, di mostre a Venezia durante la Biennale ce ne sarebbero tante da riempire un elenco del telefono, se ancora esistessero. Non resta dunque che organizzarsi, scarpe comode e pranzo al sacco, e cominciare a camminare. Ma tanto, però!