Nel suo esordio su Cultweek, il giovane progettista culturale Andrea Pastore prova a delineare i tratti salienti del progetto curatoriale di Adriano Pedrosa per la 60. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, in cui riecheggia, al di là delle buone intenzioni, la frase del Principe di Salina ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: “cambiare tutto, per non cambiare niente”.
“Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”. Questa è la celebre citazione tratta dal Gattopardo che il tempo e il passaparola nazional-popolare hanno modificato in “cambiare tutto per non cambiare niente” e che qui decliniamo rispetto al tema scelto dal curatore Adriano Pedrosa per la 60° edizione della Biennale di Venezia. Il titolo scelto, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, è tratto da una serie di opere, realizzate dal collettivo Claire Fontaine a partire dal 2004, che hanno una doppia interpretazione: da un lato si mette in luce la questione delle migrazioni e le relative reazioni xenofobe, dall’altro manifestano un sentimento di non appartenenza o estraneità con il quale ogni persona prima o poi si confronta. Opere con cui Claire Fontaine ci invitava a riflettere sui temi dell’inclusione e dell’esclusione e con cui vent’anni dopo Pedrosa ci ripropone la stessa riflessione, centrandola su migrazione e decolonizzazione. Alla Biennale viene messo in mostra l’estraneo, non solo da un luogo o da una nazione, ma da tutto quello che un modello mainstream di società ha reso “diverso”.
Ed ecco allora che nel Nucleo Contemporaneo trovano posto le produzioni dell’artista queer, dell’artista outsider, dell’artista folk e dell’artista indigenə. Ma se non bastasse un titolo di venti anni fa, quest’anno la Biennale ha anche un Nucleo Storico, una selezione di opere del XX secolo scelte per rappresentare i modernismi non euro-americani, con l’intento di approfondire la conoscenza su ciò che ha prodotto l’arte in America Latina, Africa e Asia, o nei contesti non-bianchi, non-cristiani, non-etero. Il risultato è che il tentativo dichiarato di annullare la centralità occidentale ottiene l’effetto opposto e non fa che ribadirne l’esistenza, con un’Esposizione Internazionale d’Arte pensata per un certo tipo di internazionalità, quella dello spettatore occidentale che deve scoprire il Nuovo Mondo.
Visitando il padiglione centrale ai Giardini o la mostra alle Corderie dell’Arsenale si troverà esattamente quello che ci si aspetta dai contesti sopracitati: i colori del sudamerica, il fascino artigianale dei paesi poveri del Global South, le pitture bambinesche degli outsider e via dicendo, facendo tirare un sospiro di sollievo ai conservatori e ai reazionari: anche se tutto sembra diverso, tutto è come è sempre stato e come ce lo siamo sempre immaginato. Questa Biennale ci propone una narrazione nuova che nuova non è, soprattutto nell’era digitale in cui questo“urgente bisogno di imparare di più su e da quei contesti”, come dice il curatore, può essere soddisfatto velocemente seguendo i giusti profili e i giusti hashtag o facendoci aiutare da una AI. Ormai con un telefono in mano possiamo scoprire ed esplorare le varie verità del mondo. Lo stiamo osservando con l’informazione di guerra che ci riporta, praticamente in diretta e senza analisi politiche e antropologiche da salotto, ciò che succede tra morte e macerie. Forse per spingere la pratica di decolonizzazione Pedrosa avrebbe dovuto osservare più il contemporaneo che lo “storico”.
Ma non possiamo prendercela solo con il curatore, perché la vera decolonizzazione la evitiamo anche noi. Nessuna fila per le matricole di questa Biennale, come ad esempio il padiglione dell’Etiopia, alla sua prima partecipazione. Qui le opere dell’artista Tesfaye Urgessa reinventano l’esperienza della migrazione in uno stile che unisce iconografie etiopi e figurativa europea. Possiamo visitare agevolmente anche il padiglione della Svizzera con il mondo ironico e queer proposto da Guerreiro do Divino Amor, da cui usciremo sentendoci noi stranieri dei nostri stessi paradigmi. Facciamo invece lunghe file ai padiglioni dei “big” come Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna in primis, paesi che hanno sia un passato che un presente colonialista, seppur sia encomiabile il debutto di un artista nativo per gli States. D’altronde il pensiero capitalista e colonialista è interiorizzato in noi e ci induce a pensare che i paesi ricchi e potenti avranno sicuramente contenuti migliori, ma così non è. Tra i paesi “noti”, invece, molto apprezzabile la ricerca di Sandra Gamarra Heshikiil presentata nel padiglione spagnolo come una critica al modello museale coloniale. Tra i meno noti il Benin (anche in questo caso un debuttante) che celebra la rinascita della cultura indigena con le tradizioni Gẹlẹdẹ degli yoruba e del femminismo beninese e l’Ukbekistan in cui il lavoro dell’artista Aziza Kadyri si interroga proprio su come si possa descrivere oggi la figura dello “straniero”.
Insomma, padiglioni a parte, una sessantesima Biennale non pienamente riuscita nel suo intento, che ha decolonizzato tutto per non decolonizzare niente ma che tuttavia ci stimola riflessioni critiche e ci costringe, nel bene e nel male, all’esercizio del pensiero. L’unico esercizio veramente essenziale perché, finalmente, tutto possa davvero cambiare.
In copertina: Adriano Pedrosa, foto di Jacopo Salvi
60. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, Venezia, fino al 24 novembre 2024