Il festival veneziano della contemporaneità musicale chiude in bellezza (stasera al Teatro alle Tese) con le esecuzioni inedite di Francesconi e Sciarrino. Della prima abbiamo parlato con l’Autore
Oggi, al Teatro delle Tese dell’Arsenale, con due prime esecuzioni affiancate, Luca Francesconi condivide con Salvatore Sciarrino l’ultimo atto della Biennale Musica 2024: 16 giorni da disciplina olimpica, due/quattro appuntamenti quotidiani tra mattina e sera in tutta Venezia, programmi di densità e varietà da sfida. Domani si compie il rito finale che di questo festival della contemporaneità è un marchio: musica in San Marco, voci disposte nello spazio, autori di oggi obbligati a confrontarsi con le sperimentazioni della scuola veneziana tra Cinque e Seicento. Quest’anno in basilica risuonano tre Stabat Mater: di Lisa Streich (classe 1985) e di due maestri del passato, Giovanni Croce (1557-1609) e Pierluigi da Palestrina (1525-1594). Si chiudono così anche i quattro anni della direzione di Lucia Ronchetti. Dal 2025, chissà.
Francesconi risponde alla commissione della Biennale con Sospeso, pezzo per orchestra amplificata (Frankfurter Opern-und Museumorchester diretta da Thomas Guggeis).
Luca, leggo dalla tua presentazione: “Discontinuità, non seguire obbligatoriamente il pensiero binario della logica razionale, l’ossessione di Socrate nel trovare un senso. C’è anche molto altro, sospeso intorno a noi”. Che cosa c’è in Sospeso?
ll pensiero razionale è alla base della cultura occidentale. Da Platone, Socrate fino ad oggi. Il problema è che dopo momenti importanti come il Rinascimento e l’Illuminismo, che hanno aiutato a sviluppare la coscienza dell’individuo, il processo ha preso una brutta strada. Cacciari direbbe che c’è stata un’irruzione del paradigma geometrico-razionale. La quantificazione dell’esperienza – due più due fa quattro -, spinta dalla logica capitalista del profitto – facciamo cose che producano oro, ricchezza – è stata la conseguenza della razionalizzazione della vita umana. Siamo arrivati nella casa del mercato, quella in cui viviamo: il nostro è un mondo di merci. Si è cercato in molti modi di riempire i vuoti lasciati da questa deriva, sapendo che ne sarebbe conseguito un impoverimento dello spirito: quantificare non solo le cose ma anche le persone, le identità, le emozioni, significa desertificare il cervello delle persone. Questa traiettoria ha attraversato l’Ottocento e per intero il Novecento. Non è un giudizio, ma una constatazione. Una grande civiltà ha percorso una lunga parabola. La decostruzione frutto di questo comportamento razionale ha spezzettato ogni cosa in frazioni sempre più piccole lasciando solo briciole.
Parli anche di macerie. Che sembrano riferite anche alla musica del dopoguerra, dalla quale tu e diverse generazioni avete fatto anche fatica a staccarvi. Frantumazioni che hanno messo in crisi l’ascolto.
L’idea di progresso che ha invaso il pensiero occidentale, che l’ha posseduto, l’idea del superamento continuo, di poter andare sempre oltre è totalmente falsa. Si riflette in un modo di dire ridicolo che oggi piace molto: abbiamo dato il 110 per cento. Ma se il 100 per 100 è già tutto, dove credi di andare?
C’era una dittatura razionalista nella musica?
Dittatura ha già un risvolto negativo. No, i musicisti di quelle generazioni si sono trovati a dover reagire a una guerra che aveva fatto 70 milioni di morti. Hanno avuto bisogno di eliminare l’emozione, che rischiava di farli ricadere nel post-romanticismo. Sono stati presi dal terrore di condividere qualcosa che aveva creato l’orrore. Hanno ripreso il filo del pensiero razionale e hanno tentato di ricostruire un modus operandi. Doveva avvenire. Ma taglia, dividi, frammenta, alla fine non resta più niente. Nella deriva del concettuale, non ci sono più parole per dire le idee. Si tratta di esprimere anche un’opinione musicale su questo. Così mi sono dovuto impadronire di molti elementi storici, filosofici, antropologici prima di poter elaborare un’idea mia. Mi sembra di aver dovuto pagare delle tasse fino a oggi e da qualche anno comincio a scrivere qualcosa di mio.
Discontinuità anche da te stesso?
Sì: ho molto faticosamente e molto umilmente studiato e lavorato tutti questi anni. Devo dire che pensavo di metterci un po’ meno (ride). Quando è riapparsa questa impossibilità di articolare una parola che sia condivisibile, mi sono detto: non ne posso più di questa distruzione dell’identità. Non ci sto. Vedo attorno molti morti, anche giovani. Mi dispiace, io sono vivo, preferisco buttare il sangue, la passione, la pulsione erotica. Basta con questo cinismo che è paura di dire qualcosa, di avere un’identità. Siamo alla paralisi, all’afasia. Oddio questo non si può fare, e alla fine non si fa niente. Solo un borborigma.
Lisa Streich (Foto @ Harald Hoffmann)
Sospeso è per orchestra e amplificazione, non per elettronica.
No, non elettronica. Parliamo di un mezzo semplicissimo, torniamo a cose che sono già potenti a sufficienza. Non il 110 per cento, mi basta il 40. Piccoli zoom che estraggono momenti all’interno dell’orchestra. Questo atto del sospendere lo richiamo da Coleridge, contro un cinismo che è incredulità: tutto è stato fatto, tutto è stato ascoltato.
Rientra anche il chissenefrega che dilaga nei social media, come il 110 per cento.
Sì, una delle espressioni più di basso livello che si possano immaginare: la presunzione di sapere tutto, la negazione del rapporto con l’altro, Siamo liberi, puoi fare quello che vuoi, ma non è libertà, è mancanza di empatia. I miei pezzi, soprattutto i primi, erano molto organizzati. Ma gli scienziati dicono che riusciamo a spiegare solo il 5% della realtà che ci circonda. Dunque come spiegare il mondo con tre formulette? Si valuta che possano esserci 33 dimensioni diverse. Una enorme terra incognita ci possiede. Ma non abbiamo i mezzi per penetrarla. Forse l’istinto, l’intuizione, l’ispirazione, come si diceva una volta. Nella mia musica ci sono stati momenti in cui la razionalità si sospendeva. E anche il tempo, quello della freccia da un punto all’altro. Mentre il tempo circolare, che torna su sé stesso, è quello che abbiamo dentro. Il tempo dei bambini, delle fiabe, che non va da nessuna parte. Forse il tempo della trance. Questo è ciò che mi ha appassionato, ma me lo vietavano i padri.
Sospeso li fa emergere?
Sono andato alla ricerca di certe piscine che c’erano nella mia musica e le ho usate.
Tra gli articoli che parlavano di Quartett, produzione Scala, 2011, qualcuno titolava “un’opera sospesa”. In realtà sospesa era la scena, bellissima, della Fura dels Baus. Ma anche in Quartett c’era qualcosa di sospeso?
Certo. Quartett era la prima opera di una trilogia la cui terza faccio fatica a finire perché è stata cancellata dalla Bayerische Staatsoper di Monaco, per via del covid. Una trilogia del disincanto. Un tableau metaforico sulla perdita di fiducia nella civiltà. La prima opera era nel chiuso della coppia; lì la Fura, con Alex Ollé, bravissimo, ha trovato l’idea della gabbia sospesa, su mio suggerimento. La prima sospensione è dove due persone si isolano, fuggono i contatti, rifiutano di sporcarsi con gli altri e si sbranano fra loro. Lo stesso avviene su scala sociale nella seconda opera, che ho scritto per l’Opéra di Parigi nel 2017, Trompe-la-Mort, da Balzac. La terza, che spero di realizzare alla Scala, chissà, è su Timone d’Atene. Ch’è uno dei drammi più controversi di Shakespeare. Timone è il cinico che si approfitta del mondo. É un falso naif, ricchissimo, che compra tutto, regala, distribuisce. In realtà compra le cose per comprare le anime. L’essere rifiutato dalla gente di cui sembra benefattore fa scattare l’interpretazione semplicistica dell’ingratitudine. Ma si scopre che i soldi con cui compra non sono suoi, sono prestati da coloro cui li “regala”.
La finanza di oggi.
Certo. Shakespeare ancora una volta profetico. Quando non gli danno più credito, incapace di gestire il rapporto con gli altri, Timone fugge dal mondo fasullo che lui stesso ha creato e si esilia su una spiaggia deserta, maledicendo tutti. Esattamente quel che succede oggi, anche tra i giovani: non credo più in niente, mi uccido, uccido gli altri. Sarà un’altra sospensione, con tensioni diverse. Vediamo se ci riesco.
Quartett resta un caso clamoroso nel teatro di oggi.
Sì, 85 recite, 7 produzioni diverse nel mondo. Devo aver toccato un nervo scoperto.
Nella musica strumentale hai due Concerti per violino sotto i riflettori.
L’ultimo, Corpo elettrico, 2023, è una commissione di Bamberg, Radio France, Sinfonica di Barcellona e IRCAM. Il penultimo, Duende, 2016, premiato dalla Royal Philharmonic Society, l’esegue fra tre settimane anche la New York Philharmonic. Rara eccezione per un non americano.
Patricia Kopatchinskaja (Foto @ Mysteries_bearb)
E due soliste eccellenti.
Sì, Leila Josefowicz per Duende e Patricia Kopatchinskaja per Corpo elettrico. Lavorare con violiniste belle ed eccezionali è una delle mie poche fortune.
Ma anche il rapporto col pubblico direi.
Devo ammetterlo. Quando abbiamo presentato Corpo elettrico a Santa Cecilia è successo l’incredibile. C’è un momento in cui Patricia smette di essere un violino e diventa un assolo di Jimi Hendrix. Mi son detto, chissà che cosa mi lanciano. Beh, mi s’è avvicinata gente di tutte le età. Un gruppo di studenti del liceo è venuto sotto la pedana ad abbracciarmi. Una ragazza, che magari si era fatta uno spinello, piangeva: “Non ho mai sentito niente del genere”. Ho detto ai ragazzi: “Questo è il più grande regalo che potevate farmi”.
Con Duende, a New York, ritrovi anche Susanna Mälkki, la direttrice di Quartett, bravissima.
Siamo rimasti molto legati. Non c’ bisogno di fare annunci da politicamente corretto. Con le donne ho sempre avuto un rapporto professionale eccellente. Pensa che i miei migliori allievi sono donne. Il 30 settembre, in questa Biennale, abbiamo ascoltato Radiance per coro e live electronics di Justė Janulytė, una giovane lituana che ho scoperto; lei ha una sensibilità squisitamente femminile e la si legge nelle sue opere.
Presenza sempre più forte, la donna, nella musica d’oggi.
Negli interpreti c’è sempre stata, nella creazione no. Speriamo che ci diano nuove idee, abbiamo molte scorie da buttare via. Il momento più difficile è quando c’è da lottare per mantenere il più possibile quel che conta. Nel passaggio del millennio ci portiamo appresso una valigina telematica piccolissima, in cui dobbiamo conservare ciò che vale del millennio passato. Perché fra dieci anni sarà tutto spazzato via.