Ottocento e Novecento, Tchaikovsky e Schostakovich, due epoche e due artisti a confronto. Un giovane direttore d’orchestra e una pianista affermata cercano il denominatore comune e lo trovano. La Grande Madre Russia
Un dialogo apparentemente impossibile, l’unione di due estremi, di due epoche e di due culture diverse: in questa sfida si è voluta cimentare l’Orchestra Verdi nel concerto dello scorso 9 giugno all’Auditorium, con la direzione di Jader Bignamini, giovane bacchetta ormai dal 2010 fedele presenza sul podio della Verdi, come ormai viene affettuosamente definita tra i milanesi.
Ospite d’eccezione è stata la pianista canadese Angela Hewitt, classe 1958, bachiana di ferro, la cui partecipazione come solista ha suscitato grandi entusiasmi, come non se ne vedevano da tempo. Perché, va detto fin da subito, la sfida è stata vinta e con uno straordinario risultato. Protagonisti sono stati l’ouverture fantastica Romeo e Giulietta che ha aperto la serata per lasciare spazio ai due pezzi forti: la Patetica di Tchaikovsky e il primo concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi di Schostakovich, due composizioni distanti, quasi opposte, che il concerto dell’orchestra Verdi ha unito in un dialogo inedito e sorprendente.
«La quintessenza del piano della Sinfonia è la vita. Primo movimento: tutto passione impulsiva, fiducia, sete di attività. Deve essere breve. (Finale, morte – esito del crollo). Secondo movimento, amore; terzo, disinganno; il quarto finisce morendo a poco a poco (anch’esso breve).»
Con queste parole, schematizzate con innocente semplicità, Piotr Ilych Tchaikovsky nel 1892 iniziava ad abbozzare in un pezzo di carta le idee fondamentali dei quattro movimenti della sua Patetica, vero e proprio testamento artistico, presentata in quella che allora si chiamava Pietroburgo il 28 ottobre del 1893. Pochi giorni dopo Tchaikovsky sarebbe morto e con lui non solo la grande stagione ottocentesca della cultura russa ma anche quel linguaggio musicale che da Glinka fino a Korsakov, aveva alimentato la musica ai tempi degli Zar.
(Patetica con Leonard Bernstein)
Quarant’anni dopo nella stessa Pietroburgo, all’epoca ribattezzata Leningrado, sarebbe arrivato il giovane Schostakovich a presentare nel 1933 il suo primo concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi: «Voglio difendere il diritto di ridere all’interno della cosiddetta musica seria… Quando gli ascoltatori ridono ad un concerto con musiche sinfoniche mie non sono turbato ma, al contrario, me ne compiaccio», ebbe a dire alla fine della prima del suo concerto per sottolineare il vero spirito di quella pagina geniale ed irriverente, un vero divertente passatempo musicale che, con spirito carnevalesco, parodiava melodie di Beethoven, Haydn e del suo collega Prokofiev.
Ecco dunque i due estremi di questo concerto: Tchaikovksy ormai morente e oppresso da un lato, Schostakovich, giovane, irriverente e sarcastico dall’altro: certo, la patria e la città erano le stesse, e forse anche alcuni vegliardi nel pubblico. Ma in quei quarant’anni il mondo, l’arte e la musica erano cambiati drasticamente. Il messaggio del giovane Schostakovich era chiaro: il Novecento, il secolo breve, irriverente e rivoluzionario, si stava ormai imponendo in Occidente occupando avidamente tutti quegli spazi che la fine, forse troppo violenta, dell’Ottocento aveva lasciato vuoti. Tchaikovsky era ormai lontano, troppo scomodo e aristocratico per la Russia stalinista che sognava una musica operaia.
Concerto per pf, con Marta Argerich
In questo percorso storico e musicale inedito, tra Ottocento e Novecento, tra aristocrazia e comunismo, tra Tchaikovksy e Schostakovich, Jader Bignamini ha saputo condurre l’orchestra Verdi con una precisione e una sensibilità rare nel panorama musicale di oggi, persino tra quelle orchestre e quelle bacchette che la discografia e il grande pubblico hanno collocato “ai piani alti” nel mondo dello spettacolo. “Nemmeno in Scala suonano così bene” si vociferava in sala.
Ed effettivamente non si può che condividere. Cominciamo con Tchaikovksy dove l’orchestra Verdi si è mostrata duttile ed elastica riuscendo a muoversi con facilità e sensibilità tra i contrasti e le tensioni che animano le due composizioni del genio russo. Con la bacchetta di Bignamini, l’orchestra Verdi ha dato voce ad un Tchaikovsky cupo e inquieto, ora rivolto malinconicamente verso il passato con le sue melodie ampie e tonali, ora teso verso il futuro, nell’incertezza armonica, melodica e esistenziale. Il tutto con un suono profondo e compatto. Insomma, un suono da grande orchestra.
Diversa sostanza ma stessa qualità in Schostakovich dove Bignamini è riuscito magistralmente ad alleggerire e assottigliare il suono della sua orchestra per offrire ad Angela Hewitt, accompagnata da Alessandro Caruana alla tromba, il terreno adatto per esprimere magistralmente tutta l’irriverenza, il brio ritmico che caratterizza questa geniale composizione. La grande pianista canadese ha così regalato al pubblico milanese uno Schostakovich assolutamente brillante ed equilibrato, dove ogni ibridismo, dalle marce in stile rivoluzionario (francese pero, non russo!) alle melodie di sapore haydniano, è apparso chiaro e nitido lasciando anche spazio a momenti di più ampio fraseggio e respiro laddove, come nel Lento centrale, la musica si faceva più ampia e seriosa.
E così la Verdi è riuscita a far dialogare questi due grandi della musica, così lontani nella cultura e nell’ideologia. Nella stessa serata Tchaikovksy e Schostakovich si sono avvicinati mostrando al pubblico milanese che, in fondo, le loro differenze non sono poi così grandi ma che anzi non sono altro che due facce della stessa medaglia in costante bilico tra passato e presente. Una faccia, sconsolata e pessimista, che guarda leopardianamente al passato, unica certezza di fronte a un fato incerto e tremendo. L’altra che si volta indietro, alla storia e ai suoi protagonisti, con uno sguardo così ironico ed irriverente da addirittura concedere, ad onta del venerabile Jorge, il riso laddove prima non era concesso.
Immagine di copertina © LaVerdi, www.concertodautunno.it